Come due soli in cielo
"Superata la paura, il pregiudizio di non dover gustare in sé lo sdolcinato, il melenso... assaporandosi si diventa sentimentali e, insistendo a valutare le qualità del sapore e del profumo, finalmente amorosi." L'amore è la conseguenza estrema d'essere al mondo, il superamento eccessivo dei limiti imposti all'esistere dall'esistere stesso. In questo senso l'innamorato è eroico. Lo é nella continua ripetizione del gesto amoroso, mai nella conservazione, nel mantenimento accorto, nell'usufrutto tranquillizzato del bene. Innamorato è colui che si ferma prima di instaurare la consuetudine, l'usanza dell'amore. Ogni volta mai come la prima - che già sarebbe ricorso a una tradizione calmante e certa - ma come fosse l'ultima, un estremo limite. Affronta egli l'amore con un senso di "nient'altro poi", di impossibile oltre. Così l'innamorato è furiosamente politico, definitivamente politico. Vive l'utopia e la vive in un tempo dalla durata utopica se l'amore eternizza gli attimi, li rende incalcolabili, trasfigura il tempo. Infatti il tempo stesso è illuso dall'innamorato, sospeso finalmente a non durare, ridotto a figura, maschera, falso giocoso. Questa resa qui si tenta in musica e parole. Non certo l'imitazione sentimentale, il racconto, la storietta d'amore tra chi e chi altro. Nulla che sia esperienza o guardonismo. L'esperienza, questo sentito dire, o sentito essere o, peggio, essere stati, per poi, vittimisti, vantarsene. Qui si canta un attimo impossibile a dirsi, un trascorso di chissà mai quanti pochi minuti secondi della nostra vita. Un attimo continuamente ripetuto senza nemmeno una sospensione ricreativa, figuriamoci il benessere solidale della coppietta. Perché l'innamorato è solo. Ecco perché è ripetitivo, quindi eroico. E' solo perché preamoroso. Colto prima che lei dia il suo consenso, prima che la vita continui passabilmente felice, passabilmente esaudita, prudentemente sentimentale, sentita essere e sentita dire. Qui, in musica e parole l'innamorato è solo. Lei non c'è, quindi non c'è pettegolezzo su di Lei. Lei consiste appena nella possibilità che ci sia. Più che Lei, la figura della sua figura benissimo illuminata, fino alla solarizzazione - escludendo così ogni crepuscolarismo, lamento, compianto a cose fatte -. Qui Lei è la possibilità che egli canti. Lei è la voce. Finalmente un sopruso amoroso. Abolita l'esperienza, ossia l'ipocrisia di approfittarne (dell'esperienza), l'innamorato è consapevole soltanto della quantità, quantità delle note, delle parole, delegando l'amministrazione della qualità ai bottegai del bello, agli usurai dell'interesse che deriva dal carino. Quando mai capiranno che essere veramente sentimentali esclude il futuro. Esclude la convivenza paciosa e appagata, esclude l'incantamento aneddotico del fatterello. Esclude il ragionamento ma anche il cuore inteso come conducente marsinato in rosso che guida la pariglia. Il cuore - e che sia nominato, quindi messo in croce - qui è lo scudo di Patroclo che, rotto il guinzaglio e in terra rotolato, fa del tutto uscir di sentimento l'innamorato eroe. Il cuore, lo scudo che regge e cede ai colpi. Lo scudo, il sole che sale in cielo, che giù dal cielo rotola. Perché l'innamorato non vede che il sole, che è consunzione continua, dispendio, ripetizione esatta d'attimi incandescenti, bruciore seguito da bruciore. Non la luna, pietra per coppie abbatute e stracche, sasso pallido, pastiglia per convalescenti del male d'amore, tranquillizzati dal volersi bene, dal sentirsi bene, già abitudinari. Ecco: l'innamorato non conosce abitudine; come il folgorato, così non può fare esperienza né viatico del baleare, del fulmine, del sole. Non è testimone del pettegolezzo sentimentale, ma egli stesso testimonianza, meccanica amorosa in corso, in atto, nella durata esatta, qui del suo canto. In scena sarà un' incandescenza, sul palco un principio e una fine d'incendio. Con lucida crudele sincerità, costui è capace, amando, di fondare la gelosia, di istituire l'amore e la sua imminente sparizione e, ancora, ricostituzione su altra partitura. Qui il cantante è consapevole di essere tale, cantante d'amore. Non di storie d'amore o di canzoni d'amore ma del congegno amoroso in funzione. Cantante che si fa d'amore, della stessa sostanza, struttura, complessione. E' un rilevatore, che sovrapponendosi realmente, in voce ed in figura, al fantasma amoroso, lo rende visibile. Oltre l'autobiografia o la biografia di tutti. Sospende il tempo, il trascorrere, lo sostituisce con un tempo musicale la cui unità di misura ritmica è "l'istante allucinato di sentirsi innamorato". Le parole d'amore, esageratamente comunivative del sentimento - ma comunque seguenti all'allucinazione, che è incantata - egli non le dice, le direbbe: "Vorrei che...". Sapendo che il discorso e il racconto limitano l'amore, rendono sopportabile l'abbaglio. Ma egli deve reggere alla vista del sole. Non può non essere consapevole che una parola non è per sempre ma per mille altre pronunce, tutte vivissime, tutte autenticamente dedicate. Che l'amore - volendo bene solo a te - è stato già voluto e sempre "solo a te". Che è più sensato l'incredibile di rami che fruttano baci e di due soli in cielo, laddove sarebbe veramente incredibile essere sensati ovvero utilmente amorosi ossia costitutivi di una futura, raccapricciante azienda a due, sentimentale. Perché il canto continui, anzi, l'incontro definitivo è evitato: lei entrando, uscì dalla sua vita, guardata appena, e poi non vista più. Perché se mai esiste, la felicità è nello sfiorare ciò che sta svanendo, non mai quello che resta: gli avanzi collaudati e rivendibili che è bene siano scaricati in tutti gli altri canzonieri del cazzo. Una smania del sole, uno spasismo, basta un attimo, il cantante sa ciò che dice. Lo sa. Basta così. Escluso il canto, qui d'amore, tutto il resto è vicereame, tutto il resto è Vicerè, e il Vicerè, politico che sia o crepuscolare, è abolito, che gli si tolgano gli occhi perché sta per sorgere il sole. L'amore continuamente si ricrea. E questo atossica il Vicerè. Benissimo, chiunque sia. Per la serenità: un omaggio orientale, leggero un flì di fumo appaia all'orizzonte di un paese a noi invisibile, dove il sole si leva. E, veramente, basta. 1994 A.M. (ndAmos: solo di Minghi?? Con dubbio.)