Lo storico che scorre i documenti con la preoccupazione di ritrovarvi quel fremere della vita
che gli è accaduto di sperimentare nella propria esistenza, si stupisce della rarità,
almeno fino al Cinquecento, di scene domestiche e familiari. Deve andare a scoprirle
con la lente e interpretarle valendosi di ipotesi. Al contrario, fa subito conoscenza
col personaggio principale di questa iconografia, essenziale quanto il coro nel teatro antico:
la folla; non la folla massiccia e anonima delle nostre città sovrappopolate, ma la riunione,
nella casa o nei luoghi pubblici (come le chiese) di vicini, comari e bambini, numerosi
ma non estranei l'uno all'altro - un'atmosfera di variegata familiarità molto simile
a quella che anima oggi i mercati delle città arabe, o anche il corso delle città
mediterranee all'ora del passeggio serale. Tutto si svolge come se ognuno vivesse all'aperto
invece di starsene a casa: scene di strada e di mercato, di giochi e di mestieri,
di duelli o di corti, di chiese o di supplizi. Nella strada, nei campi, all'esterno,
in pubblico, in mezzo a una collettività numerosa, là si tende a situare naturalmente
gli avvenimenti o le persone che si vogliono rappresentare.
Ne verrà fuori l'idea di isolare dei ritratti individuali o familiari. Ma il rilievo
che in queste pagine abbiamo cercato di dare a tali tentativi non deve farci dimenticare
quanto in origine essi furono rari e timidi. A lungo, fino al Seicento che è l'epoca
della grande fioritura dell'iconografia familiare, il fatto essenziale resterà la rappresentazione
della vita esteriore e pubblica. Questa impressione così largamente confortata da esempi,
che colpisce lo storico fin dal suo primo contatto con la documentazione iconografica,
risponde senza dubbio a una realtà molto profonda. La vita di un tempo, fino al Seicento,
si svolgeva in pubblico: abbiamo offerto larghi esempi dell'importanza decisiva
della società. Le cerimonie tradizionali che accompagnavano il matrimonio e che passavano
avanti alle cerimonie religiose, per un pezzo prive di solennità; la benedizione
del letto nuziale; la visita degl'invitati agli sposi già coricati; il baccano
durante la notte di nozze, ecc., comprovano i diritti della società sull'intimità della coppia.
E perché formalizzarsene quando, di fatto, non c'era quasi nessuna intimità,
quando si viveva mescolati gli uni agli altri, padroni e servitori, bambini e adulti,
in case aperte a tutte le ore all'indiscrezione dei visitatori? La densità sociale
non lasciava posto alla famiglia. Non che la famiglia non esistesse come realtà vissuta,
sarebbe paradossale metterlo in dubbio. Ma essa non esisteva né come sentimento
né come valore.
Abbiamo visto nascere e svilupparsi questo sentimento della famiglia dal Quattrocento al
Settecento. Abbiamo visto che, fino al Settecento, non aveva distrutto l'antica
socievolezza; è vero che era limitato a condizioni agiate, di notabili di campagna o di città,
aristocratici o borghesi, artigiani o commercianti. Dal Settecento in poi si estese
a tutte le condizioni sociali e s'impose tirannicamente alle coscienze. Spesso si è prospettata
l'evoluzione degli ultimi secoli come il trionfo dell'individualismo su tutti gl'impacci sociali,
tra cui si poneva la famiglia. Ma come si può vedere dell'individualismo in questo vivere moderno
dove tutta l'energia della coppia è orientata verso l'innalzamento di una posterità
ridotta volontariamente di numero? L'individualismo non sarebbe piuttosto nell'allegra
indifferenza dei prolifici padri di famiglia
ancien régime? Certamente la famiglia,
in epoca moderna, manca di quella realtà materiale che aveva sotto l'
ancien régime,
quando si identificava con un patrimonio e con una reputazione. Eccetto in casi la cui importanza
va sempre diminuendo, il problema della trasmissione degli averi passa in seconda linea
in confronto al bene dei figli che non è più necessariamente identificato con la fedeltà
a una tradizione professionale. La famiglia è diventata una società chiusa dove piace
stare e che piace evocare, come gia faceva il generale de Martange nelle sue lettere
alla fine del Settecento. Tutta l'evoluzione dei nostri costumi contemporanei
è incomprensibile se si trascura questo prodigioso ingigantire del sentimento familiare.
Non è l'individualismo che si è affermato, è la famiglia.
Ma la famiglia si è estesa nella misura in cui si contraeva la socievolezza. Tutto si svolge
come se la famiglia moderna si sostituisse alle vecchie relazioni sociali che vengon meno
per consentire all'uomo di sfuggire a una insostenibile solitudine morale. Dal Settecento
in poi si è cominciato a difendersi da una società che prima veniva assiduamente frequentata
per trovare in questo la fonte dell'educazione, della reputazione, della ricchezza.
Oramai un movimento di fondo fa saltare i vecchi rapporti fra padroni e servitori,
grandi e piccoli, amici o clienti. Movimento a volte ritardato dalle stasi dell'isolamento
geografico o sociale. Sarà più rapido a Parigi che in altre città; più rapido nella borghesia
che nelle classi popolari. Ovunque rafforzerà l'intimità della vita privata a spese
delle relazioni di vicinato, d'amicizia, di tradizione. La storia del nostro costume
si riduce in parte al lungo sforzo di appartarsi dagli altri, di tagliarsi fuori
da una società la cui pressione non è più tollerata. La casa ha perduto il carattere
di luogo pubblico che poteva assumere nel Seicento, a vantaggio del circolo o del caffè,
che a loro volta sono stati, poi, meno frequentati. La vita professionale e la vita
familiare hanno soffocato l'altra attività che in altri tempi invadeva invece
tutta la vita: quella dei rapporti sociali.
Si è tentati di pensare che il sentimento della famiglia e la socievolezza non fossero
compatibili e non potessero svilupparsi se non a detrimento uno dell'altra.
Conclusioni
* Era libero, ma infinitamente libero, fino a non sentirsi
pesare sulla terra.
Gli mancava quel peso delle relazioni umane che ostacola
il passo;
gli mancavano quelle lacrime, quegli addii, quelle storie, quei
rimproveri,
tutto ciò che un uomo accarezza o distrugge ad ogni gesto che
accenna,
quei mille vincoli che lo appesantiscono legandolo agli altri. *
{Saint-Exupéry}
Nel Medioevo, all'inizio dei tempi moderni, ancora per un pezzo nelle classi
popolari, i bambini andavano a confondersi con gli adulti appena erano ritenuti
capaci di fare a meno delle madri o delle nutrici, pochi anni dopo un divezzamento
ritardato, a sette anni circa. Da questo momento essi entravano di colpo
nella grande comunità degli uomini, dividevano coi loro amici, giovani o
vecchi, i lavori e le gioie di ogni giorno. Il moto della vita collettiva
trascinava nello stesso flusso età e condizioni, senza lasciar tempo a nessuno
per la solitudine o l'intimità. In quelle esistenze troppo dense, troppo
collettive, non c'era posto per un settore privato. La famiglia esercitava
una funzione: assicurava la trasmissione della vita, dei beni, dei nomi;
non penetrava a fondo nella sensibilità. I miti, come quello dell'amore
cortese (o prezioso) disprezzavano il matrimonio; le realtà, come l'apprendistato
dei bambini, indebolivano i legami affettivi tra genitori e figli: si può
concepire la società moderna senza amore, ma la preoccupazione del bambino
e la necessità della sua presenza vi sono radicati. La civiltà medievale
aveva dimenticato la paideia degli antichi e non conosceva ancora
l'educazione dei moderni. È questo il fatto essenziale: non aveva l'idea
di educazione. La nostra società d'oggi dipende, sapendo di dipenderne,
dal successo del suo sistema di educazione. Ha un sistema di educazione,
una concezione dell'educazione, una coscienza della sua importanza. Scienze
nuove, come la psicanalisi, la pediatria, la psicologia, si consacrano ai
problemi dell'infanzia e i loro dettami raggiungono i genitori attraverso
una vasta letteratura di volgarizzazione. Il nostro mondo è assillato dai
problemi fisici, morali, sessuali dell'infanzia.
La civiltà medievale non conosceva questa preoccupazione, perché non si
poneva il problema: il bambino, all'epoca del divezzamento o poco dopo,
diventava il compagno naturale dell'adulto. Gli aggruppamenti per età del
periodo neolitico, la paideia ellenistica, presupponevano una differenza
e un passaggio tra il mondo dei bambini e quello degli adulti, passaggio
che si superava attraverso l'iniziazione o grazie a un'educazione. La civiltà
medievale non coglieva questa differenza e non aveva quindi nozione di questo
passaggio.
Il grande avvenimento fu dunque, all'inizio dei tempi moderni, il riapparire
della preoccupazione educativa. Se ne infervorò un certo numero di uomini
di Chiesa, di legge, di studio, ancora rari nel Quattrocento, sempre più
numerosi e influenti nel Cinque e nel Seicento, quando vennero a confluire
nel movimento di quanti reclamavano una riforma religiosa. Erano, infatti,
soprattutto dei moralisti, piuttosto che degli umanisti: gli umanisti restavano
legati a una cultura umana che si estendeva alla vita intera, e poco si
curavano d'una formazione specificamente infantile. Questi riformatori,
questi moralisti, di cui abbiamo studiato l'influenza sulla vita della scuola
e della famiglia, hanno lottato con decisione contro l'anarchia (o ciò che,
ormai a loro sembrava anarchia) della società medievale, mentre la Chiesa,
sia pure controvoglia, ci si era rassegnata da un pezzo, e spingeva i giusti
a cercare la salvezza allontanandosi da quel mondo pagano, nel ritiro del
chiostro. Si assiste a una vera e propria moralizzazione della società:
l'aspetto morale della religione comincia, un po' alla volta, a prendere
il sopravvento sull'aspetto sacro o escatologico. È così che questi campioni
di un ordine morale sono stati portati a riconoscere l'importanza dell'educazione.
Abbiamo visto la loro influenza sulla storia della scuola, con la trasformazione
della scuola libera in un collegio sorvegliato. I loro scritti si susseguono,da
Gerson a Port-Royal, e divengono sempre più frequenti nel Cinquecento e
nel Seicento. I cardini religiosi fondati allora, come i Gesuiti o gli Oratoriani,
diventano ordini di insegnanti e il loro insegnamento non si rivolge più
agli adulti, come quello dei predicatori o dei mendicanti del Medioevo,
ma è specificamente riservato ai bambini e ai giovani. È stata questa letteratura,
questa propaganda, a insegnare ai genitori che essi avevano cura di anime;
che erano responsabili davanti a Dio dell'anima e, dopo tutto, anche del
corpo dei loro figli.
Si riconosce, ormai, che il bambino non è maturo per la vita, e prima di
lasciargli raggiungere gli adulti bisogna sottoporlo a un regime speciale,
a una specie di quarantena.
La nuova preoccupazione del compito educativo si insedierà un po' alla volta
nel cuore della società trasformandola da cima a fondo. La famiglia smette
di essere una semplice istituzione di diritto privato volta a trasmettere
il patrimonio e il nome; assume una funzione morale e spirituale; forma
i corpi e le anime. Fra la generazione fisica e l'istituto giuridico esisteva
una cesura che l'educazione verrà a colmare. E le cure rivolte ai bambini
ispiravano sentimenti nuovi, un'affettività nuova, che l'iconografia del
Seicento ha espresso con felice insistenza: il sentimento moderno della
famiglia. I genitori non si contentano più di mettere al mondo i figli,
di sistemarne solo qualcuno disinteressandosi degli altri. La morale dell'epoca
impone di dare a tutti i figli, non solo al primogenito, e alla fine del
Seicento anche alle figlie, una preparazione alla vita. Il compito di assicurare
tale affermazione è riconosciuto alla scuola. La scuola si sostituisce all'apprendistato
tradizionale; una scuola trasformata, strumento di severa disciplina, sotto
la protezione delle corti di giustizia e di polizia. Lo straordinario sviluppo
della scuola nel Seicento è una conseguenza di questa nuova preoccupazione
dei genitori circa l'educazione dei bambini. Gli insegnamenti dei moralisti
propongono come un loro dovere quello di mandare molto per tempo i bambini
a scuola: "I genitori, dice un testo del 1602, che si danno pensiero
dell'educazione dei loro figli (liberos erudiendos) hanno diritto
ad esser onorati più di quelli che si contentano di metterli al mondo. Essi
danno ai figli non soltanto la vita, ma una vita buona e santa. Perciò questi
genitori hanno fondato motivo di mandare, fin dalla più tenera età, i loro
bambini al mercato della vera saggezza", in altre parole in collegio,
"dove diventeranno artefici della propria sorte, ornamento della patria,
della famiglia, degli amici".
La famiglia e la scuola unitamente hanno sottratto il bambino alla società
degli adulti. La scuola ha stretto un'infanzia un tempo libera in un regime
disciplinare sempre più rigido, che si conclude nel Sette e nell'Ottocento
con l'internato completo. La cura sollecita della famiglia, della Chiesa,
dei moralisti e dei pubblici poteri ha privato il bambino della libertà
di cui prima godeva tra gli adulti. Gli ha inflitto la frusta, la segregazione,
le punizioni proprie dei condannati degli strati più bassi. Ma la severità
esprimeva un sentimento diverso dall'indifferenza di un tempo: un amore
assillante che dal Settecento in poi avrebbe dominato la società. È facile
capire come questo carattere invadente del sentimento dell'infanzia abbia
provocato i fenomeni ora meglio noti del maltusianismo, del controllo delle
nascite. Il fenomeno è comparso nel Settecento, quando la famiglia finiva
di riorganizzarsi col bambino al centro, ed elevava tra sé e la società
la muraglia della vita privata.
La famiglia moderna ha sottratto alla vita comune, non solo i bambini, ma
la gran parte del tempo e delle preoccupazioni degli adulti. Essa corrisponde
ad un bisogno d'intimità e anche d'identità: i membri della famiglia sono
legati tra loro dal sentimento, dall'abitudine, dal genere di vita. Rifuggono
dalla promiscuità che la vecchia socievolezza imponeva. Si spiega che in
origine questo predominio della famiglia sia stato un fenomeno borghese:
ai due estremi della scala sociale, l'alta nobiltà e il popolo, hanno conservato
più a lungo la tradizionale buona creanza, restando più indifferenti alla
pressione del vicinato. Le classi popolari hanno mantenuto questo gusto
dello stare a contatto di gomito fino ai giorni nostri. C'è dunque un rapporto
tra il senso della famiglia e il senso di classe. A più riprese, nel corso
del presente studio, li abbiamo visti incrociarsi. I medesimi giochi sono
stati comuni per secoli alle diverse condizioni sociali; dall'inizio dei
tempi moderni è avvenuta tra di essi una selezione: alcuni sono stati riservati
alle persone di condizione elevata; altri sono stati abbandonati ai bambini
e, a un tempo, alla gente del popolo. Le scuole di carità del Seicento,
fondate per i poveri, attiravano anche i bambini dei ricchi. Invece, dal
Settecento in poi, le famiglie borghesi rifiutano la promiscuità, e allontanano
i loro figli da quello che diventerà un insegnamento primario per il popolo,
preferendo i convitti e le prime classi dei collegi che sono diventati loro
monopolio. I giochi e le scuole, prima comuni alla società nel suo complesso,
vengono a far parte ormai di un sistema di classe. Tutto si svolge come
se un corpo sociale polimorfo, a forte azione costrittiva, dissolvendosi,
venisse sostituito da una polvere di piccole società, le famiglie, e da
qualche raggruppamento massiccio, le classi; famiglie e classi riunivano
individui che si sentivano vicini sul piano morale e che praticavano lo
stesso genere di vita, mentre il vecchio corpo sociale unico includeva la
massima varietà di età e condizioni. Infatti le condizioni vi erano tanto
più nettamente distinte e gerarchizzate quanto più erano vicine nello spazio.
Le distanze morali supplivano alla scarsa distanza fisica; la stretta norma
dei segni esteriori di rispetto e della diversità nel vestire, suppliva
alla familiarità della vita comune. Il servitore, per una selezione di cui
abbiamo oggi smarrito il segreto, non abbandonava il padrone di cui era
stato l'amico e il complice, quando il cameratismo dell'adolescenza apparteneva
al passato; l'altezzosità del padrone rispondeva allora all'impertinenza
del servo e ristabiliva, per il meglio e per il peggio, una gerarchia messa
continuamente in pericolo da una familiarità di tutti i momenti.
Si viveva in clima di contrasto; la grande nascita o l'opulenza andavano
a fianco della miseria; il vizio della virtù; lo scandalo della pietà.
Per stridente che fosse, questa diversità non stupiva; apparteneva alla
varietà del mondo che andava accettata come un dato naturale. Un uomo o
una donna dell'alta società non provavano alcun senso di disagio visitando,
nei loro abiti sontuosi, i miserabili delle prigioni, degli ospedali o delle
strade, quasi nudi sotto i loro cenci. Il giustapporsi dei due estremi non
imbarazzava gli uni come non umiliava gli altri. Qualcosa di questo clima
morale sopravvive ancora nell'Italia meridionale. Dunque, venne un momento
in cui la borghesia non sopportò più né la pressione della folla
né il contatto del popolo. Fece secessione: si ritirò dalla vasta
società polimorfa per organizzarsi per proprio conto, in un ambiente omogeneo,
tra le sue famiglie chiuse, in alloggi costruiti in vista dell'intimità,
in quartieri nuovi, salvaguardati da ogni contaminazione popolare. La giustapposizione
di condizioni diverse, un tempo considerata naturale, le diventava intollerabile:
la ripugnanza del ricco ha preceduto la vergogna del povero. L'esigenza
d'intimità, i nuovi bisogni di comodità che ne derivavano (esiste infatti
uno stretto rapporto tra vita comoda e intimità) accentuava ulteriormente
l'opposizione tra il genere di vita materiale del popolo e quello della
borghesia. La vecchia società concentrava il massimo numero di forme di
vita nel minimo di spazio e accettava, quando addirittura non la cercava,
la vicinanza barocca delle condizioni più diverse. Al contrario,
la società nuova assicurava a ogni genere di vita uno spazio riservato dove
era inteso che i tratti dominanti andavano rispettati, che bisognava ispirarsi
a un modello convenzionale, a un tipo ideale, e non allontanarsene mai,
pena la scomunica.
Il sentimento della famiglia, il sentimento di classe, e forse anche il sentimento di razza, si presentano
come manifestazioni della stessa intolleranza della diversità, della medesima preoccupazione
di uniformità.
***
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