Le età della vita

{da "Padri e figli nell'europa medievale e moderna", 1960,
di Philippe Ariés, Ed Laterza - estratti di Marco Sicco}


Un uomo del XVI o del XVII secolo si stupirebbe delle esigenze di stato civile che noi accettiamo come naturali. Ai nostri bambini, appena cominciano a parlare, insegniamo il loro nome, il nome dei genitori, la loro età. È motivo di grande fierezza se il piccolo Paolo, interrogato sull'età, risponde senza sbagliare che ha due anni e mezzo. Infatti consideriamo importante che Paolo non sbagli: che sarebbe di lui se dimenticasse quanti anni ha? Nella selva africana si tratta tuttora di una nozione molto oscura, non così importante da non poterla dimenticare. Ma nelle nostre civiltà della tecnica come si fa a dimenticare l'esatta data di nascita, se ogni volta che ci spostiamo, all'albergo, ci tocca scriverla nella scheda di polizia? e altrettanto ci accade a ogni candidatura, a ogni domanda, a ogni formulario da riempire, e Dio sa se ce ne sono, e sempre più ce ne saranno. Paolino dirà la sua età a scuola, e non tarderà a diventare Paolo N., della classe X, e al suo primo impiego riceverà, con la sua tessera di Assicurazione Sociale, un numero d'iscrizione che sostituirà il suo nome. In pari tempo, più che Paolo N., sarà un numero seguito dall'indicazione del sesso, dell'anno di nascita e del mese dell'anno. Giorno verrà in cui tutti i cittadini avranno un numero di matricola: è questa la meta dei servizi di identità. La nostra personalità civile trova ormai un'espressione più precisa nelle coordinate anagrafiche che non nel casato. Al limite questo potrebbe anche, non dico sparire, ma essere riservato alla vita privata, mentre un numero d'identità lo sostituirebbe per uso civile, ponendo la data di nascita fra le componenti essenziali. Nel Medioevo si era dovuto completare il nome proprio, ritenuto designazione troppo vaga, col casato, che spesso era un nome di luogo. Ora occorre una precisazione ulteriore, d'ordine numerico, cioè l'età. Ma il nome proprio e il casato appartengono al mondo della fantasia e della tradizione: fantasia il primo, tradizione il secondo; l'età, quantità legalmente misurabile con un'approssimazione di ore, scaturisce da un mondo diverso: quello dell'esattezza e delle cifre. In questo senso le nostre consuetudini sul piano dello stato civile risentono dell'uno e dell'altro mondo.
Ci sono tuttavia atti molto impegnativi, che compiliamo da noi stessi, la cui stesura non richiede la data di nascita. Sono atti di tipo molto diverso: titoli di credito, cambiali, assegni, da un lato; testamenti dall'altro. Ma risalgono tutti a un'origine ormai antica, anteriore all'esigenza rigorosa di identità propria del costume moderno.
(...) La preoccupazione di esattezza cronologica viene a confluire col sentimento della famiglia, si tratta di coordinate che riguardano i suoi membri in quanto tali più che non gl'individui per sé. Le date rispondono al bisogno di dare alla vita familiare una storia, e questo curioso bisogno di datare, dai ritratti si estende agli oggetti e ai mobili. Nel XVII secolo si generalizza l'abitudine di scolpire o dipingere una data su letti, cassepanche, credenze, armadi, cucchiai, vasellame di gala. La data corrisponde a un momento della storia familiare ricco di valore emotivo, in genere il matrimonio. In certe regioni, Alsazia, Svizzera, Austria, Europa centrale, i mobili dal XVII al XIX secolo, soprattutto i mobili dipinti, sono datati e portano anche il nome dei due proprietari. (...)

Le "età della vita" tengono un gran posto nei trattati pseudoscientifici del Medioevo. I loro autori usano una terminologia che a noi sembra puramente verbale: infanzia e puerizia, giovinezza e adolescenza, vecchiaia e senilità, ognuna di queste parole significa un periodo diverso della vita. Alcuni di questi termini sono entrati nel nostro uso, a designare nozioni astratte come la puerizia o la vecchiaia, ma il senso in cui li adoperiamo non rientrava nelle loro accezioni originarie. Di fatto, in origine, si trattava di una terminologia dotta che solo in seguito diventerà familiare. Le "età", "età della vita", "età dell'uomo", nella mentalità di una volta corrispondevano a nozioni positive, tanto note, ripetute, abituali, da passare dal dominio della scienza a quello dell'esperienza comune. Oggi non abbiamo più idea di quel che l'età significava nelle antiche rappresentazioni del mondo. L'età dell'uomo era una categoria scientifica importante come possono esserlo oggi il peso o la velocità: rientrava in un sistema di descrizione e spiegazione fisica che risale alla filosofia ionica del VI secolo avanti Cristo, ripreso dai compilatori medievali del Basso Impero, adottato ancora come criterio ispiratore dai primi libri a stampa di volgarizzazione scientifica del XVI secolo. (...)



Il Grand propriétaire de toutes choses [Bartholomaeus Anglicus, De propietatibus rerum, Parigi 1556] tratta delle età nel VI libro. Le età corrispondono ai pianeti e sono 7:

La prima età è l'infanzia in cui si mettono i denti; comincia al momento della nascita e dura sette anni. In questa età, l'individuo si chiama infante, cioè non parlante, perché ancora non può parlare bene e, per la mancanza di una dentatura completa e solida, non può formare perfettamente le parole, come dicono Isidoro e Costantino.

Dopo l'infanzia viene la seconda età... detta puerizia, perché l'individuo, come dice Isidoro, a quest'età è come la pupilla nell'occhio; la puerizia dura fino a quattordici anni.

Segue la terza età detta adolescenza, che secondo il Viaticum di Costantino [l'Africano] termina a ventun anno, mentre secondo Isidoro termina a ventotto... C'è chi la fa arrivare fino a trenta e anche a trentacinque anni. Isidoro dice che si chiama adolescenza perché la persona è abbastanza grande per generare. In questa età le membra sono elastiche e atte alla crescita, pronte a ricevere forza e vigore per il calore naturale. Perciò la persona cresce in quest'età fino a raggiungere la piena espansione che la natura le accorda. [Tuttavia la crescenza è già terminata prima dei trenta o trentacinque anni, e anche dei vent'otto. Senza dubbio era anche più rapida in un'epoca in cui un lavoro precoce impegnava prima tutte le risorse dell'organismo.]

Tien dietro la giovinezza che è l'età di mezzo, e pertanto segna il culmine della forza; secondo Isidoro dura fino a quarantacinque anni; secondo altri fino a cinquanta. Si chiama giovinezza, secondo Aristotele, per la forza che racchiude, di venire in aiuto a sé e agli altri.

Poi secondo Isidoro, viene l'età matura, qualcosa di mezzo tra gioventù e vecchiaia; Isidoro la definisce pesante, perché pesanti, in questa età, sono i costumi e i modi della persona, che, come dice Isidoro, ancora non è vecchia, ma giovane non è più.

Infine viene la vecchiaia che, secondo alcuni, dura fino a settant'anni e secondo altri fino alla morte. Secondo Isidoro la vecchiaia si chiama così perché la gente diventa più piccola: infatti i vecchi non conservano tutto il buon senso della giovinezza e vanno farneticando...

L'ultima parte della vecchiaia, che in latino viene indicata come decrepitezza, in francese è detta semplicemente vecchiaia... Il vecchio è afflitto da tosse, catarro, sudiciume [siamo ancora lontani dal nobile vecchio di Greuze e del romanticismo]; finché non torna a essere cenere e polvere, come all'origine.


(...) È da notare che giovinezza significa vigore dell'età, "età media", e quindi non c'à posto per l'adolescenza. Fino al XVIII secolo l'adolescenza si confondeva con l'infanzia. Nel latino dei collegi si diceva indifferentemente puer e adolescens. (...)
Il primo tipo di adolescente moderno è il Sigfrido di Wagner: la musica del Sigfrido è la prima espressione di quel misto di purezza (temporanea), di forza fisica, di naturismo, di spontaneità, di gioia di vivere che farà dell'adolescente l'eroe del nostro XX secolo, che è il secolo dell'adolescenza. Intorno al 1900, indubbiamente, penetrerà in Francia ciò che prima era comparso nella Germania wagneriana. La "giovinezza" che in quel momento s'identifica con l'adolescenza si trasforma in un tempo letterario, e in una preoccupazione morale e politica. Ci si comincia a chiedere sul serio che cosa pensi la gioventù, a pubblicare delle inchieste sulla gioventù, come quelle di Massis o d'Henriot. La gioventù si presenta come depositaria dei valori nuovi, capaci di vivificare una società invecchiata e fossilizzata. Qualcosa di simile si era manifestato all'epoca romantica, ma senza preciso riferimento a un'età, e soprattutto limitatamente all'ambito della creazione letteraria e dei suoi lettori. Al contrario la coscienza della gioventù diventò fenomeno generale e ordinario in seguito alla guerra del 1914, in cui i combattenti del fronte si contrapposero in massa alle vecchie generazioni delle posizioni arretrate. La coscienza della gioventù è stata, in un primo tempo, un sentimento di chi ha combattuto: sentimento comune a tutti i paesi belligeranti, persino all'America di Dos Passos. Partendo di qui l'adolescenza si estenderà: respingerà l'infanzia a monte, la giovinezza a valle. Il matrimonio, cessando ormai di essere una "sistemazione", non la interrompe; l'adolescente sposato è uno di tipi più caratteristici del nostro tempo: gli detta legge in fatto di valori, desideri e costumi. Si passa così da un'epoca senza adolescenza a un'epoca in cui l'adolescenza è l'età privilegiata. Si aspira a entrarvi per tempo e ad attardarcisi lungamente.
Questa evoluzione è accompagnata in senso inverso da un'evoluzione parallela della vecchiaia.
(...) Furetiére, che prende ancora molto sul serio questi problemi arcaici di periodizzazione della vita, pensa a una nozione intermedia di maturità: ma riconosce che l'uso non la conferma, e ammette: "I giureconsulti fanno della gioventù e della maturità un'età sola". Il Seicento si identifica con questa giovinezza depositaria del comando come il Novecento si identifica con la sua adolescenza. (...)

Tutto fa credere che, a ogni epoca, corrisponda un'età privilegiata e una certa periodizzazione della vita umana: la "giovinezza" è l'età privilegiata del XVII secolo, l'infanzia del XIX, l'adolescenza del XX.


Famiglia e socievolezza

Lo storico che scorre i documenti con la preoccupazione di ritrovarvi quel fremere della vita che gli è accaduto di sperimentare nella propria esistenza, si stupisce della rarità, almeno fino al Cinquecento, di scene domestiche e familiari. Deve andare a scoprirle con la lente e interpretarle valendosi di ipotesi. Al contrario, fa subito conoscenza col personaggio principale di questa iconografia, essenziale quanto il coro nel teatro antico: la folla; non la folla massiccia e anonima delle nostre città sovrappopolate, ma la riunione, nella casa o nei luoghi pubblici (come le chiese) di vicini, comari e bambini, numerosi ma non estranei l'uno all'altro - un'atmosfera di variegata familiarità molto simile a quella che anima oggi i mercati delle città arabe, o anche il corso delle città mediterranee all'ora del passeggio serale. Tutto si svolge come se ognuno vivesse all'aperto invece di starsene a casa: scene di strada e di mercato, di giochi e di mestieri, di duelli o di corti, di chiese o di supplizi. Nella strada, nei campi, all'esterno, in pubblico, in mezzo a una collettività numerosa, là si tende a situare naturalmente gli avvenimenti o le persone che si vogliono rappresentare.
Ne verrà fuori l'idea di isolare dei ritratti individuali o familiari. Ma il rilievo che in queste pagine abbiamo cercato di dare a tali tentativi non deve farci dimenticare quanto in origine essi furono rari e timidi. A lungo, fino al Seicento che è l'epoca della grande fioritura dell'iconografia familiare, il fatto essenziale resterà la rappresentazione della vita esteriore e pubblica. Questa impressione così largamente confortata da esempi, che colpisce lo storico fin dal suo primo contatto con la documentazione iconografica, risponde senza dubbio a una realtà molto profonda. La vita di un tempo, fino al Seicento, si svolgeva in pubblico: abbiamo offerto larghi esempi dell'importanza decisiva della società. Le cerimonie tradizionali che accompagnavano il matrimonio e che passavano avanti alle cerimonie religiose, per un pezzo prive di solennità; la benedizione del letto nuziale; la visita degl'invitati agli sposi già coricati; il baccano durante la notte di nozze, ecc., comprovano i diritti della società sull'intimità della coppia. E perché formalizzarsene quando, di fatto, non c'era quasi nessuna intimità, quando si viveva mescolati gli uni agli altri, padroni e servitori, bambini e adulti, in case aperte a tutte le ore all'indiscrezione dei visitatori? La densità sociale non lasciava posto alla famiglia. Non che la famiglia non esistesse come realtà vissuta, sarebbe paradossale metterlo in dubbio. Ma essa non esisteva né come sentimento né come valore.
Abbiamo visto nascere e svilupparsi questo sentimento della famiglia dal Quattrocento al Settecento. Abbiamo visto che, fino al Settecento, non aveva distrutto l'antica socievolezza; è vero che era limitato a condizioni agiate, di notabili di campagna o di città, aristocratici o borghesi, artigiani o commercianti. Dal Settecento in poi si estese a tutte le condizioni sociali e s'impose tirannicamente alle coscienze. Spesso si è prospettata l'evoluzione degli ultimi secoli come il trionfo dell'individualismo su tutti gl'impacci sociali, tra cui si poneva la famiglia. Ma come si può vedere dell'individualismo in questo vivere moderno dove tutta l'energia della coppia è orientata verso l'innalzamento di una posterità ridotta volontariamente di numero? L'individualismo non sarebbe piuttosto nell'allegra indifferenza dei prolifici padri di famiglia ancien régime? Certamente la famiglia, in epoca moderna, manca di quella realtà materiale che aveva sotto l'ancien régime, quando si identificava con un patrimonio e con una reputazione. Eccetto in casi la cui importanza va sempre diminuendo, il problema della trasmissione degli averi passa in seconda linea in confronto al bene dei figli che non è più necessariamente identificato con la fedeltà a una tradizione professionale. La famiglia è diventata una società chiusa dove piace stare e che piace evocare, come gia faceva il generale de Martange nelle sue lettere alla fine del Settecento. Tutta l'evoluzione dei nostri costumi contemporanei è incomprensibile se si trascura questo prodigioso ingigantire del sentimento familiare. Non è l'individualismo che si è affermato, è la famiglia.
Ma la famiglia si è estesa nella misura in cui si contraeva la socievolezza. Tutto si svolge come se la famiglia moderna si sostituisse alle vecchie relazioni sociali che vengon meno per consentire all'uomo di sfuggire a una insostenibile solitudine morale. Dal Settecento in poi si è cominciato a difendersi da una società che prima veniva assiduamente frequentata per trovare in questo la fonte dell'educazione, della reputazione, della ricchezza. Oramai un movimento di fondo fa saltare i vecchi rapporti fra padroni e servitori, grandi e piccoli, amici o clienti. Movimento a volte ritardato dalle stasi dell'isolamento geografico o sociale. Sarà più rapido a Parigi che in altre città; più rapido nella borghesia che nelle classi popolari. Ovunque rafforzerà l'intimità della vita privata a spese delle relazioni di vicinato, d'amicizia, di tradizione. La storia del nostro costume si riduce in parte al lungo sforzo di appartarsi dagli altri, di tagliarsi fuori da una società la cui pressione non è più tollerata. La casa ha perduto il carattere di luogo pubblico che poteva assumere nel Seicento, a vantaggio del circolo o del caffè, che a loro volta sono stati, poi, meno frequentati. La vita professionale e la vita familiare hanno soffocato l'altra attività che in altri tempi invadeva invece tutta la vita: quella dei rapporti sociali.
Si è tentati di pensare che il sentimento della famiglia e la socievolezza non fossero compatibili e non potessero svilupparsi se non a detrimento uno dell'altra.


Conclusioni

* Era libero, ma infinitamente libero, fino a non sentirsi pesare sulla terra.
Gli mancava quel peso delle relazioni umane che ostacola il passo;
gli mancavano quelle lacrime, quegli addii, quelle storie, quei rimproveri,
tutto ciò che un uomo accarezza o distrugge ad ogni gesto che accenna,
quei mille vincoli che lo appesantiscono legandolo agli altri. *

{Saint-Exupéry}


Nel Medioevo, all'inizio dei tempi moderni, ancora per un pezzo nelle classi popolari, i bambini andavano a confondersi con gli adulti appena erano ritenuti capaci di fare a meno delle madri o delle nutrici, pochi anni dopo un divezzamento ritardato, a sette anni circa. Da questo momento essi entravano di colpo nella grande comunità degli uomini, dividevano coi loro amici, giovani o vecchi, i lavori e le gioie di ogni giorno. Il moto della vita collettiva trascinava nello stesso flusso età e condizioni, senza lasciar tempo a nessuno per la solitudine o l'intimità. In quelle esistenze troppo dense, troppo collettive, non c'era posto per un settore privato. La famiglia esercitava una funzione: assicurava la trasmissione della vita, dei beni, dei nomi; non penetrava a fondo nella sensibilità. I miti, come quello dell'amore cortese (o prezioso) disprezzavano il matrimonio; le realtà, come l'apprendistato dei bambini, indebolivano i legami affettivi tra genitori e figli: si può concepire la società moderna senza amore, ma la preoccupazione del bambino e la necessità della sua presenza vi sono radicati. La civiltà medievale aveva dimenticato la paideia degli antichi e non conosceva ancora l'educazione dei moderni. È questo il fatto essenziale: non aveva l'idea di educazione. La nostra società d'oggi dipende, sapendo di dipenderne, dal successo del suo sistema di educazione. Ha un sistema di educazione, una concezione dell'educazione, una coscienza della sua importanza. Scienze nuove, come la psicanalisi, la pediatria, la psicologia, si consacrano ai problemi dell'infanzia e i loro dettami raggiungono i genitori attraverso una vasta letteratura di volgarizzazione. Il nostro mondo è assillato dai problemi fisici, morali, sessuali dell'infanzia.
La civiltà medievale non conosceva questa preoccupazione, perché non si poneva il problema: il bambino, all'epoca del divezzamento o poco dopo, diventava il compagno naturale dell'adulto. Gli aggruppamenti per età del periodo neolitico, la paideia ellenistica, presupponevano una differenza e un passaggio tra il mondo dei bambini e quello degli adulti, passaggio che si superava attraverso l'iniziazione o grazie a un'educazione. La civiltà medievale non coglieva questa differenza e non aveva quindi nozione di questo passaggio.
Il grande avvenimento fu dunque, all'inizio dei tempi moderni, il riapparire della preoccupazione educativa. Se ne infervorò un certo numero di uomini di Chiesa, di legge, di studio, ancora rari nel Quattrocento, sempre più numerosi e influenti nel Cinque e nel Seicento, quando vennero a confluire nel movimento di quanti reclamavano una riforma religiosa. Erano, infatti, soprattutto dei moralisti, piuttosto che degli umanisti: gli umanisti restavano legati a una cultura umana che si estendeva alla vita intera, e poco si curavano d'una formazione specificamente infantile. Questi riformatori, questi moralisti, di cui abbiamo studiato l'influenza sulla vita della scuola e della famiglia, hanno lottato con decisione contro l'anarchia (o ciò che, ormai a loro sembrava anarchia) della società medievale, mentre la Chiesa, sia pure controvoglia, ci si era rassegnata da un pezzo, e spingeva i giusti a cercare la salvezza allontanandosi da quel mondo pagano, nel ritiro del chiostro. Si assiste a una vera e propria moralizzazione della società: l'aspetto morale della religione comincia, un po' alla volta, a prendere il sopravvento sull'aspetto sacro o escatologico. È così che questi campioni di un ordine morale sono stati portati a riconoscere l'importanza dell'educazione. Abbiamo visto la loro influenza sulla storia della scuola, con la trasformazione della scuola libera in un collegio sorvegliato. I loro scritti si susseguono,da Gerson a Port-Royal, e divengono sempre più frequenti nel Cinquecento e nel Seicento. I cardini religiosi fondati allora, come i Gesuiti o gli Oratoriani, diventano ordini di insegnanti e il loro insegnamento non si rivolge più agli adulti, come quello dei predicatori o dei mendicanti del Medioevo, ma è specificamente riservato ai bambini e ai giovani. È stata questa letteratura, questa propaganda, a insegnare ai genitori che essi avevano cura di anime; che erano responsabili davanti a Dio dell'anima e, dopo tutto, anche del corpo dei loro figli.
Si riconosce, ormai, che il bambino non è maturo per la vita, e prima di lasciargli raggiungere gli adulti bisogna sottoporlo a un regime speciale, a una specie di quarantena.
La nuova preoccupazione del compito educativo si insedierà un po' alla volta nel cuore della società trasformandola da cima a fondo. La famiglia smette di essere una semplice istituzione di diritto privato volta a trasmettere il patrimonio e il nome; assume una funzione morale e spirituale; forma i corpi e le anime. Fra la generazione fisica e l'istituto giuridico esisteva una cesura che l'educazione verrà a colmare. E le cure rivolte ai bambini ispiravano sentimenti nuovi, un'affettività nuova, che l'iconografia del Seicento ha espresso con felice insistenza: il sentimento moderno della famiglia. I genitori non si contentano più di mettere al mondo i figli, di sistemarne solo qualcuno disinteressandosi degli altri. La morale dell'epoca impone di dare a tutti i figli, non solo al primogenito, e alla fine del Seicento anche alle figlie, una preparazione alla vita. Il compito di assicurare tale affermazione è riconosciuto alla scuola. La scuola si sostituisce all'apprendistato tradizionale; una scuola trasformata, strumento di severa disciplina, sotto la protezione delle corti di giustizia e di polizia. Lo straordinario sviluppo della scuola nel Seicento è una conseguenza di questa nuova preoccupazione dei genitori circa l'educazione dei bambini. Gli insegnamenti dei moralisti propongono come un loro dovere quello di mandare molto per tempo i bambini a scuola: "I genitori, dice un testo del 1602, che si danno pensiero dell'educazione dei loro figli (liberos erudiendos) hanno diritto ad esser onorati più di quelli che si contentano di metterli al mondo. Essi danno ai figli non soltanto la vita, ma una vita buona e santa. Perciò questi genitori hanno fondato motivo di mandare, fin dalla più tenera età, i loro bambini al mercato della vera saggezza", in altre parole in collegio, "dove diventeranno artefici della propria sorte, ornamento della patria, della famiglia, degli amici".
La famiglia e la scuola unitamente hanno sottratto il bambino alla società degli adulti. La scuola ha stretto un'infanzia un tempo libera in un regime disciplinare sempre più rigido, che si conclude nel Sette e nell'Ottocento con l'internato completo. La cura sollecita della famiglia, della Chiesa, dei moralisti e dei pubblici poteri ha privato il bambino della libertà di cui prima godeva tra gli adulti. Gli ha inflitto la frusta, la segregazione, le punizioni proprie dei condannati degli strati più bassi. Ma la severità esprimeva un sentimento diverso dall'indifferenza di un tempo: un amore assillante che dal Settecento in poi avrebbe dominato la società. È facile capire come questo carattere invadente del sentimento dell'infanzia abbia provocato i fenomeni ora meglio noti del maltusianismo, del controllo delle nascite. Il fenomeno è comparso nel Settecento, quando la famiglia finiva di riorganizzarsi col bambino al centro, ed elevava tra sé e la società la muraglia della vita privata.

La famiglia moderna ha sottratto alla vita comune, non solo i bambini, ma la gran parte del tempo e delle preoccupazioni degli adulti. Essa corrisponde ad un bisogno d'intimità e anche d'identità: i membri della famiglia sono legati tra loro dal sentimento, dall'abitudine, dal genere di vita. Rifuggono dalla promiscuità che la vecchia socievolezza imponeva. Si spiega che in origine questo predominio della famiglia sia stato un fenomeno borghese: ai due estremi della scala sociale, l'alta nobiltà e il popolo, hanno conservato più a lungo la tradizionale buona creanza, restando più indifferenti alla pressione del vicinato. Le classi popolari hanno mantenuto questo gusto dello stare a contatto di gomito fino ai giorni nostri. C'è dunque un rapporto tra il senso della famiglia e il senso di classe. A più riprese, nel corso del presente studio, li abbiamo visti incrociarsi. I medesimi giochi sono stati comuni per secoli alle diverse condizioni sociali; dall'inizio dei tempi moderni è avvenuta tra di essi una selezione: alcuni sono stati riservati alle persone di condizione elevata; altri sono stati abbandonati ai bambini e, a un tempo, alla gente del popolo. Le scuole di carità del Seicento, fondate per i poveri, attiravano anche i bambini dei ricchi. Invece, dal Settecento in poi, le famiglie borghesi rifiutano la promiscuità, e allontanano i loro figli da quello che diventerà un insegnamento primario per il popolo, preferendo i convitti e le prime classi dei collegi che sono diventati loro monopolio. I giochi e le scuole, prima comuni alla società nel suo complesso, vengono a far parte ormai di un sistema di classe. Tutto si svolge come se un corpo sociale polimorfo, a forte azione costrittiva, dissolvendosi, venisse sostituito da una polvere di piccole società, le famiglie, e da qualche raggruppamento massiccio, le classi; famiglie e classi riunivano individui che si sentivano vicini sul piano morale e che praticavano lo stesso genere di vita, mentre il vecchio corpo sociale unico includeva la massima varietà di età e condizioni. Infatti le condizioni vi erano tanto più nettamente distinte e gerarchizzate quanto più erano vicine nello spazio. Le distanze morali supplivano alla scarsa distanza fisica; la stretta norma dei segni esteriori di rispetto e della diversità nel vestire, suppliva alla familiarità della vita comune. Il servitore, per una selezione di cui abbiamo oggi smarrito il segreto, non abbandonava il padrone di cui era stato l'amico e il complice, quando il cameratismo dell'adolescenza apparteneva al passato; l'altezzosità del padrone rispondeva allora all'impertinenza del servo e ristabiliva, per il meglio e per il peggio, una gerarchia messa continuamente in pericolo da una familiarità di tutti i momenti.
Si viveva in clima di contrasto; la grande nascita o l'opulenza andavano a fianco della miseria; il vizio della virtù; lo scandalo della pietà.
Per stridente che fosse, questa diversità non stupiva; apparteneva alla varietà del mondo che andava accettata come un dato naturale. Un uomo o una donna dell'alta società non provavano alcun senso di disagio visitando, nei loro abiti sontuosi, i miserabili delle prigioni, degli ospedali o delle strade, quasi nudi sotto i loro cenci. Il giustapporsi dei due estremi non imbarazzava gli uni come non umiliava gli altri. Qualcosa di questo clima morale sopravvive ancora nell'Italia meridionale. Dunque, venne un momento in cui la borghesia non sopportò più né la pressione della folla né il contatto del popolo. Fece secessione: si ritirò dalla vasta società polimorfa per organizzarsi per proprio conto, in un ambiente omogeneo, tra le sue famiglie chiuse, in alloggi costruiti in vista dell'intimità, in quartieri nuovi, salvaguardati da ogni contaminazione popolare. La giustapposizione di condizioni diverse, un tempo considerata naturale, le diventava intollerabile: la ripugnanza del ricco ha preceduto la vergogna del povero. L'esigenza d'intimità, i nuovi bisogni di comodità che ne derivavano (esiste infatti uno stretto rapporto tra vita comoda e intimità) accentuava ulteriormente l'opposizione tra il genere di vita materiale del popolo e quello della borghesia. La vecchia società concentrava il massimo numero di forme di vita nel minimo di spazio e accettava, quando addirittura non la cercava, la vicinanza barocca delle condizioni più diverse. Al contrario, la società nuova assicurava a ogni genere di vita uno spazio riservato dove era inteso che i tratti dominanti andavano rispettati, che bisognava ispirarsi a un modello convenzionale, a un tipo ideale, e non allontanarsene mai, pena la scomunica.
Il sentimento della famiglia, il sentimento di classe, e forse anche il sentimento di razza, si presentano come manifestazioni della stessa intolleranza della diversità, della medesima preoccupazione di uniformità.

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