Col trattamento imposto alla
realtà, l'artista afferma la sua forza di rifiuto. Ma quanto egli serba di realtà
nell'universo che viene creando rivela il consenso dato a una parte almeno del
reale, che egli trae dalle ombre del divenire per portarlo alla luce della creazione.
Al limite, se il rifiuto è totale, la realtà viene espulsa per intero e otteniamo
allora delle opere puramente formali. Se invece l'artista sceglie, per ragioni
spesso estranee all'arte, di esaltare la realtà bruta, abbiamo il realismo. Nel
primo caso, il movimento primitivo di creazione in cui rivolta e consenso, affermazione
e negazione, sono strettamente legati, è mutilato a vantaggio del solo rifiuto.
Si ha allora l'evasione formale di cui il nostro tempo ha fornito tanti esempi
e di cui si discerne l'origine nichilista. Nel secondo caso, l'artista pretende
di dare al mondo la sua unità ritirandogli qualsiasi prospettiva privilegiata.
In questo senso, confessa il proprio bisogno di unità, sia pure degradata. Ma
rinuncia pure all'esigenza prima della creazione artistica. Per meglio negare
la relativa libertà della coscienza creatrice, afferma la totalità immediata del
mondo. L'atto creatore si nega in questi due generi di opere. All'origine,
rifiutava soltanto un aspetto della realtà al momento stesso in cui ne affermava
un altro. Giunga da questo a rifiutare tutta la realtà o ad affermare essa sola,
in ogni caso si rinnega, nella negazione assoluta o nell'affermazione assoluta.
Sul piano estetico, quest'analisi, come vediamo, viene a coincidere con quella
che abbiamo abbozzata sul piano storico.
Ma come non esiste nichilismo che non finisca per postulare un valore, né materialismo
che, pensando se stesso, non venga a contraddirsi, arte formale e arte realista
sono concetti assurdi. Nessun'arte può rifiutare assolutamente il reale. La
Gorgona è senza dubbio una creatura puramente immaginaria; la sua grinta e le
serpi che la cingono esistono in natura. Il formalismo può riuscire a svuotarsi
sempre più di ogni contenuto reale, ma sempre l'aspetta un limite. Persino la
geometria pura cui perviene talvolta la pittura astratta chiede ancora al mondo
esterno i suoi colori e i suoi rapporti prospettici. Il vero formalismo è silenzio.
Allo stesso modo il realismo non può fare a meno di un minimo d'interpretazione
e d'arbitrio. La migliore fotografia già tradisce il reale, essa nasce da una
scelta e dà un limite a ciò che non ne ha. L'artista realista e l'artista formale
creano l'unità dove non è, nel reale allo stato grezzo, o nella creazione immaginaria
che crede di espellere ogni realtà. Al contrario, l'unità in arte sorge al termine
della trasformazione che l'artista impone al reale. Non può fare a meno né dell'una
né dell'altro. Questa correzione [Nota di Camus: Delacroix nota, ed è un'osservazione
di grande portata, che bisogna correggere "quell'inflessibile prospettiva che
(nella realtà) falsa la vista degli oggetti a forza di giustezza".] che
l'artista opera col suo linguaggio e con una redistribuzione di elementi attinti
al reale, si chiama stile e conferisce all'universo ricreato la sua unità
e i suoi limiti. Essa tende in ogni rivolta umana e riesce in alcuni genii, a
dare al mondo la sua legge. "I poeti," dice Shelley. "sono i legislatori,
non riconosciuti, del mondo."
L'arte del romanzo, per le sue stesse origini, non può mancare di concretare questa
vocazione. Non può né acconsentire totalmente al reale, né scostarsene assolutamente.
Il puro immaginario non esiste, e se anche esistesse in un romanzo ideale che
fosse puramente disincarnato, non avrebbe significato artistico, essendo prima
esigenza dello spirito in cerca d'unità che questa unità sia comunicabile. D'altra
parte, l'unità del puro ragionamento è una falsa unità poiché non poggia sul reale.
Il romanzo ottimistico (o a fosche tinte), il romanzo edificante si scostano dall'arte
nella misura, piccola o grande, in cui disobbediscono a questa legge. La vera
creazione romanzesca, al contrario, utilizza il reale ed esso solo, con il suo
calore e il suo sangue, le sue passioni e le sue grida. Semplicemente, vi aggiunge
qualche cosa che lo trasfigura.
Allo stesso modo, quello che viene comunemente chiamato romanzo realista vuole
essere la riproduzione del reale in quanto esso ha d'immediato. Riprodurre gli
elementi del reale senza scegliervi nulla sarebbe, se quest'impresa si potesse
immaginare, ripetere sterilmente la creazione. Il realismo non dovrebbe essere
che il mezzo d'espressione del genio religioso, ciò che l'arte spagnola fa mirabilmente
presentire o, nell'altro estremo, l'arte delle scimmie che si accontentano di
ciò che è, e lo imitano. In realtà, l'arte non è mai realista; ha talvolta
la tentazione di esserlo. Per essere veramente realista, una descrizione si condanna
a non avere fine. Dove Stendhal descrive, con una frase, l'ingresso di Lucien
Leuwen in un salotto, l'artista realista dovrebbe, a termini di logica, adoperare
parecchi tomi a descrivere personaggi e ambiente, senza arrivare ancora ad esaurire
il particolare. Il realismo è enumerazione indefinita. Con ciò rivela che la sua
ambizione è la conquista non dell'unità, ma della totalità del mondo reale. Si
comprende allora come sia l'estetica ufficiale di una rivoluzione della totalità.
Ma questa estetica ha già dimostrato la sua impossibilità. I romanzi idealisti
scelgono loro malgrado nel reale, perché la scelta e il superamento della realtà
sono la condizione stessa del pensiero e dell'espressione. [Nota di Camus:
Ancora Delacroix lo dimostra con profondità: "Perché realismo non fosse una parola
vuota di senso, bisognerebbe che tutti gli uomini avessero lo stesso spirito,
lo stesso modo di concepire le cose."]. Scrivere è già scegliere. Come
c'è un arbitrio dell'ideale, esiste dunque un arbitrio reale che fa del romanzo
realista un romanzo a tesi implicita. Ridurre l'unità del mondo romanzesco alla
totalità del reale non è possibile se non mediante un giudizio a priori
che elimini dal reale quanto non conviene alla dottrina. Il cosiddetto realismo
socialista è allora destinato, per la logica stessa del suo nichilismo, ad accumulare
i vantaggi del romanzo edificante e della letteratura di propaganda.
Sia che l'evento asservisca il creatore, sia che il creatore pretenda negare interamente
l'evento, la creazione dunque si abbassa alle forme degradate dell'arte nichilista.
La creazione segue le stesse leggi della civiltà; essa suppone una tensione ininterrotta
tra forma e materia, divenire e spirito, storia e valori. Se l'equilibrio è spezzato,
si ha dittatura o anarchia, propaganda o delirio formale. In ambedue i casi la
creazione, che coincide invece con una libertà ragionata, è impossibile. Ceda
alla vertigine dell'astrazione e dell'oscurità formale, o faccia appello alla
sferza del realismo più crudo o più ingenuo, l'arte moderna, nella sua quasi
totalità, è un'arte di tiranni e di schiavi, non di creatori.
L'opera il cui contenuto straripa dalla forma, quella in cui la forma sommerge
il contenuto, non parlano che di un'unità delusa e delusoria. In questo campo
come negli altri ogni unità che non sia di stile è mutilazione. Qualsiasi prospettiva
abbia scelta un artista, un principio rimane comune a tutti i creatori: la stilizzazione,
che suppone, ad un tempo, il reale e lo spirito che al reale dà forma. Per mezzo
di questa, lo sforzo creatore rifà il mondo e sempre con una lieve deformazione
che è il marchio dell'arte e della protesta. Si tratti dell'ingrandimento che
Proust arreca all'esperienza umana, o, al contrario, della tenuità assurda che
il romanzo americano conferisce ai suoi personaggi, in qualche modo la realtà
viene forzata. La creazione, la fecondità della rivolta stanno in questa deformazione
che rappresenta lo stile e il tono di un'opera. L'arte è un'esigenza d'impossibile
messa in forma. Quando il grido più lacerante trova il suo più fermo linguaggio,
la rivolta appaga la sua vera esigenza e trae da questa fedeltà a se stessa una
forza di creazione. Sebbene ciò urti i pregiudizi del nostro tempo, il più
grande stile in arte è l'espressione della rivolta più alta. Come il vero
classicismo non è altro che un romanticismo dominato, il genio è una rivolta che
ha creato la propria misura. Per questo non esiste genio, contrariamente a quanto
s'insegna oggi, nella negazione e nella pura disperazione.
Ciò significa insieme che il grande stile non è una semplice virtù formale.
Lo è quando venga perseguito per se stesso a detrimento del reale, e non è allora
il grande stile. Non inventa più, ma imita - come ogni accademismo - mentre la
vera creazione è, a suo modo, rivoluzionaria. Se bisogna spingere molto in là
la stilizzazione, riassumendo essa l'intervento dell'uomo e la volontà di correzione
apportata dall'artista alla riproduzione del reale, è d'uopo tuttavia che resti
invisibile perché la rivendicazione che dà origine all'arte sia tradotta nella
sua tensione estrema. Il grande stile è la stilizzazione invisibile, vale a
dire incarnata. "In arte," dice Flaubert, "non si deve temere
di essere esagerati." Ma aggiunge che l'esagerazione dev'essere "continua
e proporzionale a se stessa". Quando la stilizzazione è esagerata e si lascia
scorgere, l'opera è pura nostalgia; l'unità che essa tenta di conquistare è estranea
al concreto. Quando al contrario la realtà è consegnata allo stato grezzo, e la
stilizzazione insignificante, il concreto viene offerto senza unità. La grande
arte, lo stile, il vero volto della rivolta, stanno tra queste due eresie. [Nota
di Camus: La correzione differisce secondo i contenuti. In un'opera fedele
all'estetica qui abbozzata, lo stile varierebbe con i contenuti, il linguaggio
proprio all'autore (il suo tono) permanendo il luogo comune che mette in risalto
le differenze di stile.]