Ho conosciuto Leopold Kohr dieci anni prima di arrivare a capirlo, quando tutti e due
eravamo appena arrivati all'Università di Portorico. Per anni, in facoltà e all'Ufficio
pianificazione abbiamo letto i suoi scritti e la sua rubrica fissa settimanale,
e abbiamo scambiato la sua saggezza eccentrica per le deliziose sparate di un utile
rompiscatole. Nessuno di noi capì allora che Kohr si stava impegnando in un'analisi
dimensionale della realtà sociale e ci spronava costantemente verso un senso della proporzione
e delle dimensioni che, nello sviluppo di progetti concreti, risultava una guida
molto più valida delle misurazioni quantitative considerate indice di progresso.
A distanza di anni è triste voltarsi indietro a guardare l'ultimo ventennio di storia
di Portorico e ricordare il tempo in cui le proposte sensate e realistiche di Kohr
avrebbero ancora potuto minimizzare i problemi dell'imminente cancro industriale,
dando priorità alla bellezza e alle capacità di realizzazione individuali, piuttosto
che all'efficienza statistica; quando la scelta di insediamenti ad alta concentrazione
di popolazione nel mezzo di un traffico a bassa concentrazione non era ancora stata
completamente esclusa dallo spesso strato di cemento che ha ora ricoperto il miglior suolo
di questa isola tropicale. Oggi le proposte di Kohr riecheggiano in un ambiente
che è diventato la vetrina mondiale di un progresso industriale pianificato
in modo burocratico, e della distruzione progressiva dell'individuo. Oggi,
quello che allora era lo slum di La Perla, inserito nella conca del centro storico
di San Juan, non può più essere recuperato: i suoi abitanti sono diventati degli esiliati
nelle loro case colme di nuovi gadget e sono stati istruiti ai più alti livelli
mondiali di incompetenza specializzata. I suggerimenti di Kohr sono ora un richiamo
a capovolgere il processo di modernizzazione subito dalla povertà portoricana,
e una sollecitazione a fondare qualsiasi istanza di liberazione sulla dis-illusione,
sul distacco e sul disinvestimento.
Quando, non molto tempo fa, ho riletto questi articoli, scritti per due giornali locali
di una capitale dei Caraibi da un professore austriaco che ora insegna presso un'università
gallese, ho ripensato a quel tempo lontano quando lo vedevo spesso seduto sulla sua terrazza
tra i banani e ho frugato ancora una volta in quell'angolo della mia biblioteca messicana
dove ho ammucchiato i rapporti che nel frattempo sono stati scritti su Portorico
da burocrati, ispettori sociali e alcuni poeti. Ho trascorso la sera cercando di immaginare
che cosa questa strana accozzaglia di libri potrebbe dire, a delle persone lontane,
di quell'esperienza unica attraverso la quale è passata la gente di Portorico
durante gli ultimi due decenni. Ho sfogliato le indagini indiscrete di studiosi americani
di scienze sociali i quali, per anni, difficilmente avrebbero fatto carriera a Yale
o Cornell senza condurre ricerche sul campo sulle cavie tenute in questa isolata
colonia americana. Mi sono ancora una volta meravigliato davanti a libri scritti
per mere operazioni di promozione personale, con i quali più di un professore
universitario, ora famoso, si è fatto soldi e reputazione sulla Madison Avenue
accademica; mi sono perso negli smilzi volumi di versi angosciati, balbettanti
nei rimasugli di una lingua madre avvilita dall'inglese parlato a scuola
e alla televisione. Mi sono reso conto che le situazioni sociologiche degli anni Cinquanta
sono svanite, che l'entusiasmo per il progresso statistico si è affievolito
e che la lingua dei poeti che cantavano l'indipendenza per un popolo, metà del quale
è cresciuto negli slum di New York, resterà incomprensibile per quasi tutti coloro
che non sono nati qui.
Ho ripreso in mano le pagine di Kohr e mi sono sentito doppiamente grato del fatto
che egli abbia steso i suoi scritti professorali, diretti a una situazione
quanto mai specifica, perché siano pubblicati in una forma accessibile anche al lettore comune.
Questa dissertazione su una pianificazione urbanistica alternativa consente al lettore
di avere una visione del ventre molle del progresso di Portorico dalla prospettiva
di un economista-filosofo. Permette anche all'autore di ricordarci scherzosamente
di essere stato un buon insegnante. Leggendo queste pagine mi sono sentito imbarazzato
a constatare che i valori della piccolezza, del policentrismo, di un decentramento
efficace, della de-professionalizzazione, della decelerazione e della strutturazione autonoma
che la nostra generazione è andata 'scoprendo' erano stati altrettanto chiaramente,
e molto più umoristicamente, espressi da Kohr, prima che comprendessimo
che cosa stava insegnando.
Centro interculturale di documentazione
Cuernavaca, 1976
(...) In primo luogo, una città ben progettata deve essere una federazione di piazze,
e non una successione asmatica di strade prive di ossigeno. Solo introducendo
un sistema di piazze, che duplica, invece di centralizzare, le funzioni
della vita cittadina, è possibile diffondere, disperdere e diminuire
la pressione del traffico, di solito aumentata dalla caratteristica
di strettoia delle strade.
In secondo luogo, come una città ben progettata deve essere
una federazione di piazze, così una metropoli ben progettata
deve essere una federazione di città. Per ottenere questo
è necessario concedere una buona dose di autonomia ai distretti,
circoscrizioni o arrondissements che la compongono.
Perché solo un'organizzazione autonoma può offrire
a livello locale l'insieme dei servizi essenziali di una comunità.
E solo se tali servizi sono erogati localmente i cittadini
potranno avere un incentivo a stare dentro i confini
del loro distretto, invece di intasare le strade
allo scopo di cercare in lontani centri metropolitani
quello che hanno a portata di mano. Pertanto, a livello di conurbazioni
più grandi, la soluzione consiste nel sostituire l'attuale
metropoli mononucleare, con un unico centro, mediante
un sistema polinucleare multicentrico.
Limitando la partecipazione sociale degli abitanti, persino
all'interno di una città immensa, quasi esclusivamente ai quartieri
di residenza, questa soluzione ha l'ulteriore vantaggio
non solo di restituire all'uomo l'umanità delle proporzioni,
ma di fornirgli anche un ambiente trasparente che può essere colto
in tutto il suo significato dalla sua piccola statura. Perché,
parafrasando la definizione aristotelica delle dimensioni ideali
di uno stato, il proprio quartiere è l'unico abbastanza piccolo
da "poter essere compreso con una sola occhiata".
In terzo luogo, come una metropoli deve essere una federazione di città,
una nazione che goda di buona salute deve essere una federazione
di capoluoghi di provincia o città-stato dotati di ampia autonomia,
come descrivo più diffusamente nell'ultimo capitolo di questo libro.
La pressione del traffico metropolitano, infatti, aumenta non solo
dall'interno di una città come conseguenza dell'integrazione urbana,
ma anche dall'esterno, come risultato dell'interdipendenza economica
tra la capitale e le province derivante dall'integrazione nazionale.
Da ultimo, per assicurare la sopravvivenza dello schema cellulare
assorbi-traffico nel contesto di un sistema federativo largamente
autonomo, non è sufficiente concedere alle piazze di una città,
ai distretti di una metropoli e ai comuni e alle regioni di una nazione
una buona dose di autonomia politica ed economica; si deve
garantir loro in grande misura anche l'autosufficienza conviviale
ed estetica. Perché quello che tiene gli abitanti ancorati al loro quartiere
è, in ultima analisi, non l'economia ma l'estetica, non la ricchezza
ma il piacere, non la ragione ma il sentimento, non l'industria
ma la bellezza. E, in una prospettiva urbana, la bellezza deve manifestarsi
non solo negli edifici di una città, ma anche e in primo luogo
nella struttura organica del suo ambiente conviviale.
Tutto ciò si dimostrerebbe proibitivo se comportasse la necessità
di abbellire ogni angolo e dettaglio di una città. Ma, come
ho accennato nell'Introduzione e come chiarirò nei capitoli
seguenti, quello che occorre non è tanto una pianificazione globale,
quanto un processo che si può chiamare disseminazione nucleare
o polinucleare. Con questa espressione si intende l'inserimento,
nei distretti autonomi di una metropoli e nei comuni delle città-regione
di un intero paese, di un nucleo di strutture (chiese, taverne,
sale consiliari) determinate da istanze estetiche e conviviali
anziché economiche. La natura diversificata e l'aspetto piacevole
di questi nuclei consentiranno loro di resistere alla pressione
inevitabilmente centralizzante e, pertanto, causa di traffico,
delle città capitali, il cui sviluppo storico, affidato alle mani sensibili
dei maestri del passato, si è tradotto in un tale monopolio
di attrazione conviviale che nessun incentivo a favore dei sobborghi
o delle città di provincia è in grado di contrastarlo.