Il discorso ecologico sul pianeta terra, la fame globale, le minacce alla vita ci sollecitano, come
filosofi, a volgere umilmente lo sguardo al suolo. Noi poggiamo i piedi sul suolo, non sul pianeta.
Proveniamo dal suolo e al suolo consegnamo i nostri escrementi e le nostre spoglie. Eppure il
suolo - la sua coltivazione e il nostro legame con esso - è significativamente trascurato
dall'indagine filosofica della nostra tradizione occidentale.
Come filosofi, ci dedichiamo a ciò che sta sotto i nostri piedi perché la nostra generazione ha
perso il suo radicamento al suolo e alla virtù. Per virtù intendiamo la forma, l'ordine e la
direzione dell'azione plasmata dalla tradizione, delimitata dal luogo e qualificata dalle scelte
effettuate entro l'ambito abituale di esperienza di ciascuno; intendiamo quella pratica
reciprocamente riconosciuta come il bene in una cultura locale condivisa che rinforza la memoria di
un luogo.
Noi constatiamo che la virtù così intesa è tradizionalmente associata al lavoro faticoso,
all'abilità artigianale, all'arte di abitare e di soffrire, attività sostenute non da astrazioni
quali il pianeta terra, l'ambiente o il sistema energetico, ma dai suoli particolari che esse hanno
arricchito con le loro tracce. Ma nonostante questo legame fondamentale tra il suolo e l'essere
umano, tra il suolo e il bene, la filosofia non ha messo a punto i concetti che ci permetterebbero
di porre in relazione la virtù con il suolo comune, qualcosa di radicalmente differente dal
controllo pianificato del comportamento su un pianeta condiviso.
I nostri legami col suolo - le relazioni che limitavano l'azione rendendo possibile la virtù
pratica - sono stati recisi allorché il processo di modernizzazione ci ha isolati dalla semplice
sporcizia, dalla fatica, dalla carne, dal suolo e dalle tombe. La sfera economica dentro cui,
volenti o nolenti, talvolta a caro prezzo, siamo stati assorbiti, ha trasformato le persone in unità
intercambiabili di popolazione, governate dalle leggi della scarsità.
Gli usi civici e l'arte di abitare sono a mala pena immaginabili da chi è schiavo dei servizi
pubblici e alloggia in garage ammobiliati. In questo contesto il pane è stato ridotto a mero genere
alimentare, se non a calorie o a fibre. Dopo che il suolo è stato avvelenato e cementificato,
parlare di amicizia, religione e sofferenza partecipata come stile della convivialità appare come
una fantasia accademica a persone disseminate in modo del tutto casuale tra veicoli, uffici,
prigioni e hotel.
Come filosofi, rivendichiamo il dovere di occuparci del suolo. Ciò era dato per scontato da parte di
Platone, Aristotele e Galeno, oggi non più. Il suolo su cui la cultura può crescere e il grano
essere coltivato svanisce alla nostra vista allorché viene definito nei termini di sottosistema
complesso, settore, risorsa, problema o "impresa agricola", come per lo più accade nelle scienze
agrarie.
Come filosofi, proponiamo di organizzare forme di resistenza nei confronti di quegli esperti di
ecologia che predicano il rispetto della scienza ma promuovono il disinteresse per la tradizione
storica, le attitudini locali e la virtù terrestre dell'autolimitazione.
Con tristezza, ma senza nostalgia, riconosciamo che il passato è passato. Sia pur con esitazione,
cerchiamo allora di condividere ciò che vediamo: alcune conseguenze derivanti dal fatto che la terra
ha perduto il suo suolo. Di fronte all'indifferenza per il suolo mostrata dagli ecologisti dei
consigli di amministrazione proviamo fastidio, ma siamo altrettanto critici nei confronti di quei
numerosi romantici, luddisti e mistici benintenzionati che esaltano il suolo facendone la matrice
della vita anziché della virtù. Lanciamo perciò un appello a favore della filosofia del suolo:
un'analisi chiara e disciplinata di quella esperienza e memoria del suolo senza le quali non vi può
essere né la virtù, né alcuna nuova forma di sussistenza.
* Nota:
Il testo originale è reperibile sul sito del Pudel Circle di Brema ...
Traduzione di
Antonio Airoldi