(...) Per
somatologia intendo dunque la ricerca sul
soma, intorno al quale si concentra il mio interesse storico.
Ho accuratamente circoscritto la mia ricerca alla tradizione nata nel V sec. a. C. sull'isola egea di Kos,
con Ippocrate e i suoi allievi. Nella storia dell'Occidente tale tradizione si snoda attraverso nomi quali Galeno,
Avicenna, Thomas Willis, Georg Ernst Stahl. La
patologia degli umori, legata a questi nomi, fu perciò in auge
ben oltre l'Antichità e il Medioevo, fino all'inizio dell'epoca barocca. (...)
Il filo rosso di questa storia del corpo, che risuona come eco del fluire intimo e rammemorato, è "il sangue":
una sola parola per la pluralità degli umori. (...)
Le parole (oggi,
ndr) hanno perduto il loro sapore somatico; gli enunciati non hanno più un referente carnale. (...)
Confondere gli umori con il plasma e l'emoglobina trasforma il passato in un erbario, in un inventario
di femmine essiccate e raggrinzite.
...la storia del corpo è, in definitiva, la storia dell'incarnazione della differenza.
Ascoltiamo ... Wirsung: "Se si esamina l'utero in tutte le sue parti, lo si può paragonare in tutto e per tutto al membro
maschile, con la differenza che quest'ultimo è fuori, mentre quello femminile è interno." Ciò che oggi colpisce
di queste parole è soprattutto la forte accentuazione della corrispondenza tra i genitali maschili e quelli femminili.
È fondamentale la somiglianza morfologica e funzionale (...)
Anche lo scroto va inteso secondo questa analogia (...) "La matrice femminile",
così Bauhin definisce quello che oggi viene definito "utero",
"viene paragonata da Galeno allo scroto maschile, come se lo scroto fosse un utero
rovesciato ed esterno. Il collo della matrice, dunque, sta al posto della verga, e, poiché il collo
della matrice e il membro virile sono, convenientemente, della stessa lunghezza, il seme di entrambi,
con lo sfregamento del coito, si riversa nello stesso vaso". (...) (ovvero,
ndr)
ciò che differenzia l'uomo e la donna non è la diversità, ma l'inversione.
I geni in testa
...mi riferisco alla proliferazione, nel linguaggio di tutti i giorni, di parole che si richiamano alla genetica, e alle
mie osservazioni sulle conseguenze del loro uso nella conversazione, in particolare in quella tra donne.
"Gene", "genetico", "genoma" pullulano ovunque si parli di tumore al seno, di alcolismo, di aggressività,
di demenza senile e soprattutto del nascituro. Non c'è alcun dubbio. La domanda su cui vorrei attrarre l'attenzione
è: che cosa "dicono" queste parole a sfondo genetico? Soprattutto: che cosa vogliono dire in particolare
quando compaiono in frasi che si riferiscono a un "tu" che ho davanti, a un "lei" conosciuto, perfino a un "me",
e non a un "si" impersonale, o a un "noi", e neppure all' "essere umano"?
che cosa "mi" succede quando "ti" attribuisco dei geni e fantastico sulla mia persona
come su un essere determinato geneticamente? Io non sono questa cosa qua! Se qualcuno qui si riferisse
a me come un fenotipo di genoma ultracinquantenne extrauterino, gli chiederei di abbandonare la sala. (...)
"I miei geni" non possono essere percepiti: fantasticare su di essi nella migliore delle ipotesi
è grottesco; per il genetista il "gene" è una parola stampella per una funzione probabilistica.
Per la donna incinta che non ha imparato a sorridere diventa una clava. Quando parli dei "suoi geni"
o di quelli del nascituro, colpisci con questa clava non solo lei, ma te stesso. Nessuna frase che associa
il "gene" alla prima persona singolare è innocente. Chi dice "gene" e intende "io"
si rende colpevole, parla in un quadro probabilistico, che disgrega ciò che è percepibile e carnale. (...)
Nessuna donna incinta può sottoporsi a una consulenza sulle probabilità genetiche del feto senza percepirsi,
nello specchio del profilo di rischio fetale, come fenotipo del suo genoma, dei suoi geni.
Ogni donna che ha letto sulle riviste dei "geni dell'obesità", e guarda se stessa scrollando la testa,
corre il rischio di associare concetti statistici al suo corpo e di attribuire loro una realtà.
Questa donna si considera, alla lettera, la realizzazione di un programma genetico. La comparsa del gene
nel linguaggio ordinario (il dilagare del gene) favorisce una tipologia imprevista di fatalismo,
che si potrebbe definire come "asservimento al gene". (...)
Vorrei spiegarvi in sei punti quel che intendo. In ognuno di questi punti sottolineerò la contraddizione
tra la libera autorità dell' "io" e il determinismo del "gene".
1) Il gene è una cifra. (...) Nel discorso tecnico la parola non ha né senso né significato. (...)
Il gene nella lingua quotidiana è in stridente contrasto con questo autoriferimento al libero
e sovrano presente di chi sta di fronte e dice "io". Io sono qui in carne e ossa,
corpo e anima, e con la mia aura. Se il gene mi infetta nell'atto stesso di dire "io",
allora è qualcosa che non si può vedere, gustare, sentire o toccare: eppure si sostiene
che sia proprio questa entità a determinarmi. (...)
2) I geni entrano in scena per determinare funzioni, elementi di programma di un
agency. (...)
Non avendo studiato biologia molecolare, ho cercato informazioni su un manuale di genetica.
E ho constatato con stupore che in tutto il mondo non c'è nessuna autorità scientifica
che possa definire che cosa effettivamente "è" un gene. È un termine che crea confusione.
Genetisti come la mia allieva
Silja Samersky mi hanno spiegato che il gene è come un camaleonte.
È vero che la biologia molecolare negli anni settanta è riuscita a indagare direttamente il DNA,
ma non si è giunti per questo più vicini al famigerato "atomo della biologia".
Al contrario, tutti i tentativi di delimitare il gene e di definirlo hanno dovuto
progressivamente essere abbandonati. Già nel 1984 il genetista Raphael Falk ha riconosciuto questa indeterminatezza:
"Ad ogni nuova conquista nel settore della biologia molecolare è emerso che il gene
non è nient'altro che un ausilio intellettuale per l'organizzazione di dati. Nel nostro ramo
scientifico è stato prezioso procedere
come se esistessero entità chiamate "geni".
Il gene, l'ho detto, non è nulla più di una protesi concettuale. (...) Ma se la parola
non indica niente di preciso, che cosa significa dunque nel linguaggio corrente? Un fatto è certo:
introdotto nella quotidianità, il termine si carica semanticamente, ha un effetto magico...
La capacità di definire chiaramente la cosa svaní nella scienza allo stesso ritmo a cui strepitano
i rozzi profani. "In ogni cellula del nostro corpo ci sono i geni, che costituiscono
l'intero progetto di costruzione dell'essere umano". Sempre più spesso il genoma
diventa la spiegazione di una caratteristica, l'origine e la causa prima dell'esistenza,
utilizzato per questo o per quello. Riferito all'io, sostituisce la personalità,
la morale, l'unicità del mio essere-in-un-certo-modo e del mio comportamento
con un'interpretazione biologica della mia condotta di vita.
3) "Io" è una parola sostitutiva, un segno che "sostituisce"
qualcosa per cui non esiste nessuna parola (...) è un gesto linguistico che indica una percezione
somatica di sé, strettamente collegata al corpo, qualcosa che so senza doverlo esprimere a parole
(...) la prospettiva di una nazione costituita da genomi a due gambe presuppone che il gene
diventi un corpo e questo grazie al discorso liturgico sulla fede del gene.
4) Il gene non è una parola di plastica (la "parola ameba" di
Uwe Porksen, ndr ...
).
Non è un termine polivalente, ma è talmente incontrollato da non indicare nulla
con esattezza (...) una parola suicida per chi la pronuncia.
Ogni volta che qualcuno ricorre alla parola "gene", si stacca un pezzo della sua autopercezione
somatica e di lui/lei rimane un composto di elementi scartati dalla "scienza".
5) Il discorso sui geni, sulla genetica, sul genoma è uno stimolo potente per fantasie malate
e sogni angosciosi (...) è assolutamente necessario riflettere su ciò che succede all'autocoscienza
di una donna quando si sente come la madre potenziale di un ricettacolo di "geni sbagliati".
6) Quando la parola "gene" affiora in un discorso scientifico, chi è in grado di leggere
sa che in tutti i casi si accenna alla probabilità di una correlazione, che corrisponde a un'osservazione
condotta in base alle popolazioni. Le probabilità statistiche si riferiscono per definizione
al sopravvenire di eventi nella loro totalità. (...) Una probabilità calcolata si riferisce sempre
solo al verificarsi di qualcosa in una popolazione, e mai e poi mai a una donna concreta o al suo futuro bambino.
Ma, inevitabilmente, le chiacchiere sui nostri geni, in Parlamento o nei media, hanno assunto un significato
fuorviante, angosciante e doloroso per la persona, che considera il calcolo dei rischi
come una divinazione scientifica. (...) Le chiacchiere sui geni hanno un effetto linguistico
che si può paragonare ai retrovirus dell'Aids: un virus che circoscrive il "soma".
Concetti statistici come "rischio", "probabilità", "informazione",
"opzione" e "decisione" sono introdotti furtivamente nella quotidianità
come il cavallo di Troia. La fede nel gene pretende che comprendiamo noi stessi e il prossimo
come un sistema automatico e quindi gestibile, che attiva la propria autoresponsabilità
seguendo il relativo
input.(...)
Questa pretesa riguarda innanzi tutto le donne, non gli uomini. Poiché sono loro ad andare ai colloqui
di consulenza genetica, incinte o spaventate dal cancro. (...) Soprattutto le donne incinte
sono state indottrinate sull'esistenza e la forza dei "geni", al punto che i calcoli
statistici non sembrano giungere dal computer, ma rispecchiare dati corporei reali. (...)
Ciò che c'è di più concreto, delicato e segreto nel
soma femminile, si trasforma, nelle attività
e nei discorsi pubblici, in simbolo della pretesa di un autoriferimento decorporeizzato
senza precedenti. (...)
Per combattere contro l'oblio in cui sta precipitando il nostro corpo, spero sia d'aiuto
un radicale a-genetismo.