In memoria di Ivan Illich, uno dei suoi ultimi scritti (1999) ...
che ricevo da Giannozzo Pucci e Antonio Bruno

"Ivan è morto
(a Brema, ndr) lunedì due dicembre fra le dodici e trenta e le una e un quarto.
Era stato a fare una passeggiata, all'agenzia a comprare i biglietti per l'Italia
ed era tornato a casa, ha parlato al telefono alle dodici e trenta con la Silia
che stava aiutando in una ricerca e si sono messi d'accordo di confrontare
le correzioni alle una e trenta. La Silia è arrivata alle una e un quarto:
era steso sul divano nella sala grande, aveva appoggiato gli occhiali
accanto sul davanzale della finestra e i fogli del lavoro accanto a sé
con diverse correzioni già segnate: sembrava che dormisse,
con un bel sorriso sul volto disteso. Era morto."

Lettera di Giannozzo Pucci, 8-12-2002
...

{A cura di Marco Sicco}


L'aumento delle cure genera nuove patologie

L'ossessione della salute perfetta


In un mondo impregnato dell'ideale strumentale della scienza,
il sistema sanitario crea incessantemente nuovi bisogni terapeutici.
E via via che l'offerta di sanità aumenta, la gente risponde adducendo più problemi,
bisogni, malattie. Nei paesi sviluppati, dunque l'ossessione della salute perfetta
è divenuta un fattore patogeno predominante. Ciascuno esige che il progresso
ponga fine alle sofferenze del corpo, mantenga il più a lungo possibile
la freschezza della gioventù e prolunghi la vita all'infinito.
È il rifiuto della vecchiaia, del dolore e della morte.
Ma si dimentica che questo disgusto dell'arte di soffrire
è la negazione stessa della condizione umana.


di Ivan Illich* ...

Se si considera la nostra medicina quella del mondo occidentale nell'ottica dello storico, si pensa inevitabilmente a Bologna, dove l'ars medendi et curandi si separò, in quanto disciplina, dalla teologia, dalla filosofia e dal diritto. Fu qui che in base a una scelta riferita a una piccola parte degli scritti di Galieno (1), il corpo della medicina ha stabilito la propria sovranità su un territorio distinto da quelli di Aristotele o di Cicerone. Ed è a Bologna che la disciplina che ha per tema il dolore, l'angoscia e la morte è stata reintegrata nell'ambito della saggezza, superando una frammentazione che non era mai stata operata nel mondo islamico, ove il titolo di Hakim designa a un tempo lo scienziato, il filosofo e il guaritore.
Nel conferire l'autonomia universitaria al sapere medico, e nell'istituire inoltre l'autocritica della sua prassi grazie alla creazione del protomedicato, Bologna ha posto le basi di un'impresa sociale eminentemente ambigua, un'istituzione che ha fatto progressivamente dimenticare i limiti entro i quali la sofferenza dovrebbe essere affrontata piuttosto che eliminata, e la morte dovrebbe essere accolta anziché respinta. Certo, la tentazione di Prometeo (2) si è presentata fin dai primordi della medicina. Anche prima della fondazione dell'università di Bologna, nel 1119, i medici ebrei, nell'Africa del Nord, contestavano l'eclissarsi dei medici arabi nell'ora fatale. E ci è voluto del tempo perché questa regola scomparisse. Ancora nel 1911, data della grande riforma delle scuole di medicina americane, si insegnava come riconoscere la "facies ippocratica", i segni grazie ai quali il medico comprende di non trovarsi più davanti un paziente ma un morente. Questo realismo appartiene al passato. Ma è ormai venuto il momento, a fronte dell'affollamento dei morti mancati grazie alle terapie, e della loro moderna disperazione, di rinunciare a voler guarire la vecchiaia. Servirebbe un'iniziativa per preparare il ritorno della medicina al realismo, e subordinare la tecnica all'arte di soffrire e di morire. Occorrerebbe suonare un campanello d'allarme, per far comprendere che l'arte di celebrare il presente è paralizzata da questa ricerca della salute perfetta.

Dal corpo fisico al corpo fiscale

Per parlare di questa "salute" metaforica, occorre intanto accettare due punti. Storica non è soltanto la nozione di salute, ma anche quella di metafora. Il primo punto dovrebbe risultare evidente, il saggista Northrop Frye (3) mi ha fatto comprendere il secondo: la metafora ha una portata assai diversa tra i greci e i cristiani primitivi, per i quali evoca rispettivamente le dee Hygeia (4) e Hygia, e i cristiani medievali, invitati alla salvezza grazie a un solo creatore e salvatore crocefisso; ma è ancora diversa laddove crea il bisogno di terapie in un mondo impregnato dell'ideale strumentale della scienza. Nella misura in cui si accetta una siffatta storicità della metafora, è il caso di chiedersi se, in quest'ultimo scorcio del millennio, è ancora legittimo parlare di una metafora sociale.
Ed ecco la mia tesi: verso la metà del XX secolo, la nozione di una "ricerca della salute" implicava significati del tutto diversi che ai giorni nostri. Secondo la nozione che si afferma oggi, l'essere umano bisognoso di salute è considerato come un sottosistema della biosfera, un sistema immunitario che deve essere controllato, regolato, ottimalizzato, come "una vita".
Non è più questione di porre in luce ciò che costituisce l'esperienza "di essere vivente". Con la sua riduzione a "una vita", il soggetto cade in un vuoto che lo soffoca. Per parlare della salute nel 1999, bisogna comprendere la ricerca della salute come l'opposto di quella della salvezza; comprenderla come una liturgia societaria, al servizio di un idolo che spegne il soggetto.
Nel 1974 scrissi la Nemesi medica (5). Non avevo però scelto la medicina come tema, bensì come esempio. In questo libro intendevo proseguire un discorso già avviato sulle istituzioni moderne, in quanto cerimonie creatrici di miti, di liturgie sociali intese a celebrare certezze. In questo senso avevo esaminato la scuola (6), i trasporti e gli alloggi, per comprenderne le funzioni latenti e ineluttabili: ciò che proclamano, piuttosto che ciò che producono; il mito dell'Homo educandus, il mito dell'Homo transportandus, e infine quello dell'uomo incastrato. Ho scelto la medicina come esempio per illustrare livelli distinti del carattere controproducente tipico di tutte le istituzioni del dopoguerra, del loro paradosso tecnico, sociale e culturale: sul piano tecnico, la sinergia terapeutica che produce nuove malattie; su quello sociale, lo sradicamento operato dalla diagnostica, che ossessiona il malato, l'idiota, l'anziano così come chi lentamente si spegne. E soprattutto, sul piano culturale, la promessa del progresso conduce al rifiuto della condizione umana e al disgusto dell'arte di soffrire.
Ho iniziato Nemesi medica con le parole: "L'impresa medica minaccia la salute". All'epoca, questa affermazione poteva far dubitare della serietà dell'autore, ma aveva anche il potere di provocare stupore e rabbia. A 25 anni di distanza, non potrei più far mia questa frase, per due motivi: i medici non hanno più in mano il timone dello stato biologico, la barra della biocrazia. Se mai si ritrova un medico nei ranghi dei "decisori", la sua presenza serve a legittimare la rivendicazione del sistema industriale di migliorare lo stato della salute. Oltre tutto, una "salute" non più sentita. Una "salute" paradossale.
Il termine "salute" designa un optimum cibernetico. La salute concepita come un equilibrio tra il macrosistema socio-ecologico e la popolazione dei suoi sottosistemi di tipo umano. Nel sottomettersi all'ottimizzazione, il soggetto rinnega se stesso.
Oggi, inizierò la mia argomentazione dicendo: "La ricerca della salute è divenuto il fattore patogeno predominante". Sono infatti costretto a prendere in considerazione un'azione controproducente alla quale non potevo pensare all'epoca in cui scrissi Nemesi medica Un paradosso che diviene evidente quando si scava nei rapporti sui progressi dello stato di salute. Bisogna leggerli in senso bifronte, alla maniera di Giano (7): l'occhio destro rimane colpito dalle statistiche della mortalità e morbilità, il cui calo è interpretato come il risultato delle prestazioni mediche; con il sinistro non si possono più evitare gli studi antropologici che contengono le risposte alla domanda: come va?
Non si può più evitare di vedere il contrasto tra la pretesa salute obiettiva e quella soggettiva. E cosa osserviamo? Quanto più aumenta l'offerta di salute, tanto più le persone rispondono adducendo i loro problemi, bisogni, malattie, e chiedendo di essere garantite contro i rischi. E tutto questo quando nelle regioni considerate arretrate i "sottosviluppati" accettano la propria condizione senza problemi. Alla domanda: come va?
Rispondono: "Bene, data la mia condizione, la mia età, il mio karma". E ancora: quanto più l'offerta della pletora clinica risulta da un impegno politico della popolazione, tanto più intensamente è risentita la mancanza di salute. In altri termini, l'angoscia misura il livello della modernizzazione, e più ancora quello della politicizzazione.
L'accettazione sociale della diagnostica "obiettiva" è divenuta patogena in senso soggettivo. E sono precisamente gli economisti fautori di un'economia sociale orientata dai valori della solidarietà che fanno del diritto egualitario alla salute un obiettivo primario.
Logicamente, si vedono costretti ad accettare limiti economici per tutti i tipi di cure individuali. Sono loro a dare un'interpretazione etica della ridefinizione del patologico che si opera all'interno della medicina. La ridefinizione attuale della malattia comporta, secondo il professor Sajay Samuel, dell'università Bucknell, "una transizione del corpo fisico verso un corpo fiscale". In effetti, i criteri selezionati che classificano questo o quel caso come passibile di cure clinico-mediche sono, in misura crescente, parametri finanziari.
In una prospettiva storica, la diagnostica ha avuto per secoli una funzione eminentemente terapeutica. L'incontro tra il medico e il malato era essenzialmente verbale. Ancora all'inizio del XVIII secolo, la visita medica era una conversazione. Il paziente raccontava, aspettandosi da parte del medico un ascolto privilegiato. Sapeva ancora parlare di ciò che provava uno squilibrio degli umori, un'alterazione dei flussi, un disorientamento dei sensi, e infine le terrificanti coagulazioni. Quando leggo il diario di questo o quel medico del periodo barocco (XVI-XVII secolo), ogni annotazione evoca una tragedia greca. L'arte medica era un'arte dell'ascolto. Il comportamento del medico era quello che, nella sua Poetica, Aristotele esige dal pubblico di un teatro, un punto sul quale si differenzia dal suo maestro Platone. Aristotele è tragico non soltanto per le parole ma per le inflessioni della voce, la melodia, i gesti. È così che il medico rispondeva mimeticamente al paziente, per il quale questa diagnosi mimetica aveva una funzione terapeutica.
Ma presto questa risonanza scompare, e l'auscultazione prende il posto dell'ascolto. L'ordine dato cede il posto all'ordine costruito, e non soltanto in medicina. L'etica dei valori soppianta quella del bene e del male: la sicurezza del sapere declassa la verità così come nella musica l'ascolto della consonanza, che poteva rivelare l'armonia cosmica, scompare sotto l'effetto dell'acustica, una scienza che insegna come far sentire le curve sinusoidali nel registro di mezzo. Questa trasformazione del medico che ascolta una lagnanza in medico che assegna una patologia arriva al suo punto culminante dopo il 1945. Si induce il paziente a guardare se stesso attraverso il diagramma sanitario; ad assoggettarsi, nel senso letterale del termine, a un'autopsia: vedere se stesso con i propri occhi. Questa autovisualizzazione lo indurrà a rinunciare a sentirsi. Le radiografie, le tomografie e la stessa ecografia degli anni 70 lo aiutano a identificarsi con le tavole anatomiche che da bambino vedeva appese alle pareti delle aule scolastiche. La visita medica serve così alla disincarnazione dell'ego.

L'inumano numerico

Sarebbe impossibile, all'approssimarsi del 2000, procedere all'analisi della salute e della malattia in quanto metafore sociali senza comprendere che questa autoastrazione immaginaria, con il suo rituale medico, appartiene anch'essa al passato. La diagnosi non dà ormai più un'immagine con una qualche pretesa di realismo, bensì un intersecarsi di curve e di probabilità, organizzate per costituire un profilo. La diagnosi non è più rivolta al senso della vista, ma esige ormai dal paziente un freddo calcolo. In maggioranza, gli elementi della diagnosi non misurano più un dato individuo concreto. Ogni osservazione colloca il suo caso in una "popolazione" diversa, indicando un'eventualità senza poter designare il soggetto. La medicina si è posta in condizione di non poter più scegliere il bene per un paziente concreto. Per decidere dei servizi che gli verranno resi, obbliga il diagnosticato a giocare la propria sorte al poker.
Prendo come esempio la consultazione genetica prenatale, studiata a fondo da una collega, la ricercatrice Silja Samerski, dell'università di Tfbingen. Neppure dopo aver studiato dozzine di protocolli avrei potuto credere a ciò che accade in quelle consultazioni, affidate a medici con alle spalle quattro anni di specializzazione in genetica, alle quali si sottopongono in Germania varie categorie di donne. I medici si astengono rigorosamente da qualsiasi opinione per non rischiare la sorte di un loro collega di Tfbingen, che nel 1997 è stato condannato dalla Corte Suprema a provvedere a vita al mantenimento di un bimbo malformato: aveva suggerito alla futura madre che le probabilità di una malformazione del genere sarebbero state modeste, anziché limitarsi a indicare una percentuale di rischio.
In questi colloqui, si passa dall'informazione sulla fecondazione e da un'esposizione riassuntiva delle leggi di Mendel (8) alla definizione di un albero genetico-araldico, per arrivare all'inventario dei rischi e a una passeggiata attraverso un "giardino dei mostri". Ogni volta che la donna chiede se potrebbe accaderle una cosa del genere, il medico le risponde: "Signora, non possiamo escludere con sicurezza neppure questo". Quel che è certo comunque è che una risposta del genere lascia le sue tracce. La cerimonia ha un effetto simbolico ineluttabile: quello di costringere la donna incinta a prendere una "decisione", identificando se stessa e il suo futuro bambino con una configurazione di probabilità.
Non sto parlando della decisione in favore o contro la continuazione del suo stato di gravidanza, bensì dell'obbligo della donna a identificare se stessa e il nascituro con una "probabilità". Identificare la propria scelta con un biglietto della lotteria. La si costringe così a un ossimoro (9) di decisione, una scelta che si pretende umana, mentre corrisponde ad essere incastrati nell'inumano numerico. Eccoci così davanti non più a una disincarnazione dell'ego, bensì alla negazione dell'unicità del soggetto, all'assurdità di porsi a rischio come sistema, come modello attuario. Il consulente diviene psicopompo (10), in una liturgia di iniziazione al tutto-statistico. E tutto questo in nome del "perseguimento della salute". A questo punto diventa impossibile trattare della salute in quanto metafora. Le metafore sono tragitti da una riva semantica all'altra. E per natura zoppicano. Ma per la loro stessa essenza, gettano una luce sul punto di partenza della traversata: cosa che non può più avvenire quando la salute è concepita come l'ottimizzazione di un rischio. L'abisso che esiste tra il somatico e il matematico non lo ammette. Il punto di partenza non tollera né la carne, né l'ego. Il perseguimento della salute li dissolve entrambi. Come si può dare ancora corpo alla paura quando si è privati della carne? Come evitare di cadere in una deriva di decisioni suicide? Diciamo una preghiera: "Non lasciateci soccombere alla diagnosi ma liberateci dai mali della sanità!".



Note:

* Ivan Illich. Saggista. Autore, fra l'altro, di Rovesciare le istituzioni, Armando, 1985; Disoccupazione creativa, Red/Studio redazionale, 1996; Per una etologia della lettura, Minima 26, 1994.

(1) Galieno. Medico greco (131-201), che esercitò soprattutto a Pergamo e a Roma. Attraverso la dissezione di animali, riuscì a compiere in campo anatomico importanti scoperte sul sistema nervoso e sul cuore. La sua influenza è stata considerevole fino al XVII secolo.

(2) Prometeo. Eroe dell'antichità, cui è stato attribuito il merito di aver insegnato agli esseri umani l'intero scibile alla base di una civiltà. Ha rapito il fuoco agli dei per portarlo agli uomini.

(3) Northrop Frye (1912- 1990), già professore all'università di Toronto e uno dei più influenti critici letterari di lingua inglese. Autore, tra l'altro, di: Anatomia della critica, (Einaudi, 1972); Il potere delle parole. Nuovi studi su Bibbia e letteratura (La Nuova Italia, 1994); La duplice visione. Linguaggio e significato nelle religioni (Marsilio, 1993).

(4) Hygeia. Personificazione della salute, figlia di Asclepio, il dio greco della medicina.

(5) Ivan Illich, Nemesi medica. L'espropriazione della salute. Arnoldo Mondadori Editore, 1977.

(6) Leggere Ivan Illich, Descolarizzare la società. Arnoldo Mondadori Editore.

(7) Giano bifronte, dio romano dal doppio volto. A lui è consacrato il mese di gennaio januarius.

(8) Jan Rehor, detto Gregori Mendel (1822- 1884), botanico ceco, fondatore della genetica. Ha scoperto le leggi dell'ibridazione.

(9) Come la metafora, l'ossimoro è una figura retorica che consiste nell'applicare a un nome un epiteto che sembra contraddirlo: ad esempio, chiarezza oscura, sole nero, forza tranquilla.

(10) Psicopompi. Conduttori delle anime dei morti, come Hermes e Orfeo.

(Traduzione di P.M.)


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