Panella recita Carver

Roma, Teatro Argentina, 9 dicembre, di Amilga Quasino, 17/12/2002 ...


Oh sì, beh, insomma, la serata bisogna dire che non era niente male, se non fosse stato per quel fatto dello stomaco vuoto che non avrebbe retto un dito di martini se prima non vi fosse stato stipato qualcosa, diciamo, un qualchecosina di salato. Il treno mi-ci aveva portato con quell'aria futurista da una capitale all'altra, galleria per galleria, da naviglio a fiume sacro, scambi dopo scambi a ritmo fisso tu-tum tu-tum come un passamano di birillo a una gara di ginnasti artistici, un po' di nevischio, sì, negli appennini romagnoli, ma si sa di roncobilaccio e barberino del mugello eccetera eccetera eccetera che fa molto sapore goethe, o forse -ancora meglio- miller, in viaggio per l'Italia. Armata di taccuino bonfichiavo sì che in fondo il viaggio valeva la pena, che l'immaginifico cassio mi avrebbe accompagnata in cocchio e chissà se avessi visto gloria allora un principio di trinità si sarebbe potuta postulare -e poi il vagabondaggio per roma- sarebbe stato ideale scorazzare come guasconi alla ricerca di un'osteria che so, di un postribolo dove affogare ipotesi e pareri sulla poesia, il costrutto, l'edizione, la propaganda, infiorettare temi anarchici e avviare circoli autogestiti di pensiero. Stampe. Il mio nome a pennarello su di una copertina, un euro a copia per la comune, e sul retro pasticciate alcune righe incipitorie, e le mie è le tue è le sue, le nostre, i nostri figli belli a passeggio sottobraccio per il ghetto ebreo, tondo tondo intorno alla sinagoga, guarda c'è il caramba che ci vede e si domanda che faranno poi di male quei tre dell'avemaria, sbandati al marciapiede con dei fogli sottomano -dattilografati.

Ohibò mi pareva che al freddo si potesse dar battaglia con una rossa bottiglia mentre la sera scendeva sulla nostra roma -quanto è bella dal giardino degli aranci- l'hai mai vista? è e quella fontana asciutta dove appoggiavamo il gomito alzandolo un po' per portare alle labbra le strisce di coppiette piccanti e pizza bianca a pezzi, ancora calda-calda e non faceva freddo-no mentre i gabbiani strillavano a squarciagola lassù nel pentagono di cielo delle cinque scole. E stappa e strappa, e brucia e spegni, e versa e spegni e brucia, e brucia e cammina, e ghigna alla vita, e sorridi per godere, e tu che vedi e mi godi, e occhi e bocche, boccheggi e occhiaie -domani sicuro- e io godo e beccheggio, e camminiamo saliamo e ci diamo dentro con poco affanno che insieme siamo leggeri. Sali, sali, sali, sali... più sali e più mi viene da venire... oh sì, anche lui una mezza promessa, una donna vengo-vengo di sicuro, tu mi porti da lui -sì- che io lo amo pazzamente, tu mi porti, -Tu la vedi? -Non la vedo e se la vedo ti nascondo che sei tutto mio stasera: mia voce mio attore mia poesia... dove sono gli altri? Si perdono una bella cosa, peccato. Se ne perdono anche due, e tre, ma che ci importa poi a noi, intanto ora -sempre- ci siamo e siamo, qui...? Si abbassano le luci, si spengono le voci e toh! suonano jazz- bella rapsodia- basta metterci una fisarmonica e vedi che siamo ancora in osteria? Il vino scorre -si vede a occhio nudo- nelle vene, musicanti e cantastorie inclusi, bene comune, mezzo gaudio già all'inizio, mentre maschere ubriache sbandano fra'l pubblico impaziente al buio.

Il nostro palchetto di madama e messere freme di spazio vuoto, dai separé troppo a vista, dalla porta schiusa e lo scricchiolìo dell'impiantito. Chi entra osa e lui è il mio attore preferito qui nel palco intimo e mistico e nessuno ci divide, chi ci vede? Entra in scena Lui, il suo attore preferito, e io debbo goderne per riflesso, che lui così vuole che anche io lo ami nella forma della sua prima costola. E inizia il Suo assolo bevuto, un fiume rubicondo il Monologo di Carver, tagliato qua e là dalle uve del Panella. Tra i leggeri vapori dell'alcol non ho ricordi precisi della trattazione, non so se per colpa dell'attenzione alla jazz session o alla distrazione attratta dal volto del mio diletto cassio che mi fa il labiale alle battute a occhi chiusi e labbra semoventi, e mi orchestra ritmi e tempi col dito della mano destra -non so quale (lo vedo con la coda dell'occhio). Occhio alla musica, orecchio al testo, siamo sulla Sua barca, ospiti sulla Sua barca, dalla cui barca Egli lancia -sufficiente- i fogli letti. È il momento del pezzo forte, recita La Cattedrale, a passeggio su due piedi, proprio come farebbe un ebbro in equilibrio sull'areola del microfono "ON AIR". Sì va bene, il testo non è un gran che... potrebbe esser più poesia... è Lui il mago della Parola, d'accordo, ma... se... però... il testo gli si adatta, e in effetti è come se leggesse a palpebre abbassate, in braille col palmo sul leggìo che scorrendo segue lo spartito. Sì, in somma, sembra che accompagni Musica, e balzella sui talloni alle battute dei piatti, alle soffiate del mantice s'alza in punta di piedi, si rilascia alle sditalinate del piano-forte. Ohibò.

Il rullo del testo gli si svolge nella testa e i suoi occhi riversi infatti non si vedono e non vedono la platea che sorbisce soggiogata lo spettacolo della Sua voce. Il legno impolverato color legno lascia impronte e cavi a vista, il teatro fa da sfondo rosso tondo e affacciata ai balconcini un sacco di gente per piani sei. Racconta sì, dell'amico cieco della moglie che faceva effettivamente la lettrice di letture per il cieco stesso una volta, e descrive la mogliettina in deshabillé che chiude gli occhi e si addormenta sdolcinata e lui -che non sa che dire al cieco- dice al cieco cosa c'è che sta trasmettendo la luce dello schermo del televisore. Immagina di dire. E gli deve -a un certo punto dire- spiegare cosa è una cattedrale, come gliela può descrivere, come gliela può mostrare... Notre Dame de Paris su un sacchetto di plastica, frrrusshh, frrusshh, frrrusshh...:


NOTRE DAME

Non canto di sirena sgorgò dalla mia gola ma vocali silenti e cristalline stanno frantumando -in miriadi di goccioline colorate- di Notre Dame tutte le vetrate. © amilga

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