9 luglio 2002, commento a
"Nascita di un personaggio" {da "Il foglio", 09-07-2002}
Esplorare la geografia di te.
Scoprire dove la terra del tuo corpo diventa mare e,
quali eventi climatici ti scatenano bufere attorno e dentro.
è il terremoto nelle tasche.
Prendere coscienza dell'essere... qualcosa per qualcuno...
essere qualcuno o qualcosa che cambia di sé coscienza.
Tu, terra mia, o il niente su cui appoggio i piedi:
semplice coordinata, il punto delle pelvi; polare lo sguardo.
Il corpo e i pensieri come geografia, riferimento ed orizzonte.
Ed è un deserto. Il deserto è... scoprire, attraverso la nebbia dei vestiti
che ghirlandano a festa, la forma del tuo-mio paesaggio interiore,
ed ubriacarsi, come quando un viaggio finisce,
come quando ci si accorge che esso è, e non la meta, il premio
e che scoprire non è che il termine e non il fine.
Trema il corpo e è terremoto, o bufera, o semplice risveglio.
16 luglio 2002, commento a
"Vedi o guarda?" {da "Il foglio", 16-07-2002}
Le cose che ci sono, le cose che ci metto.
Se un panettiere fa una torta, diventa pasticcere?
O resta un panettiere ambizioso? Armato di maraschino?
Si attacca alla canottiera una medaglia di marmellata?
"Guardate, guardate (con le labbra ad amaca) mi sono premiato,
graduato, elevato. Impasto un impasto sublime ora, io faccio, quindi sono!"
Torta di panettiere... E il pasticcere spezza il pane e ci mette la marmellata;
inventa un dolce nuovo? E il bambino? Che mangia pane e sudore
alle quattro del pomeriggio? Quanto pane, quanti dolci.
Quante cose ci sono e quante cose ci metto... Vedete?
Vedete o guardate? Vediamo o guardiamo o, distratti che siamo
non ci accorgiamo nemmeno di quel che facciamo?
Dormiamo? Bla bla ... ma guarda che strano, è un dolce o pane gentile?
"Ma io" Dice uno (poniamo... Caio) " preferisco il salato".
"Ed io" sfodera e para Sempronio "sono anoressico e cattolico insieme"
"Povero me, povero me" piange Francesco "sono tutti migliori di me".
Il panettiere, che bimbo voleva solo sudare, cambia la maglia
come la pelle i serpenti ed affonda di nuovo le mani nella farina,
la testa nelle cose, credendosi pasticcere in missione per conto dell'Io.
23 luglio 2002, commento a
"Le nuove visite" {da "Il foglio", 23-07-2002}
Siamo quel che vediamo, amici miei e siamo le cose che ci circondano;
siamo lo zerbino della nostra casa e la porta chiusa con noi dentro.
Ho un pennello che lascia disegni, non solo colore, ma disegni a strisce,
o a fiori, non un semplice rullo ma un pennello, che avvolge le cose
con i suoi peli, non le solite setole, ma peli, anzi antenne,
come baffi di gatto e ogni antenna un segno largo o stretto,
proprio il segno che ci vuole per colorare il tal dei tali ed il tal'altro.
E così mi dipingo, una volta al giorno, e poi decido, se son verde di rabbia
o giallo di gioia o bianco nero come Buster Keaton.
Mi guardo da lontano, nello specchio mi confondo come se fossi lì
- e son lì - perché da vicino non mi vedo, non vedo di me la faccia,
non l'espressione, che cambia, ma la faccia, quella ferma
che l'espressione nasconde dietro i disegni che lascio a larghe pennellate.
Si... basta una cosa, che cambiamo aspetto; pensa alla torta di ciliegie
o peggio... pensa a che spavento. Ed allora giù a pennellar di pennello,
giù a lasciar disegni come vestiti davanti allo specchio che usiamo
come zerbino della nostra casa; giù a scolpire desideri sui muri,
scoprire pensieri dietro i mobili che ingombrano le pareti.
Ho sognato una vergine ed ho estratto il pennello. Bianca la dipinsi,
rossa la presi, nera la lasciai. Ogni pennellata un'espressione:
prima distratta tra i distratti, poi rapita e pensierosa infine solo voce
con la faccia immaginata, ma non la faccia che di solito pensiamo
per definizione, ma una faccia con dentro tutte le altre facce.
Amici miei, siamo quel che vediamo, ma non quel che vediamo,
quel che immaginiamo.
30 luglio 2002, commento a un
monologo ...mai uscito.
Non è al solito posto, e in nessun altro. L'ho cercato, l'ho cercata,
in altre colonne; mi sono posto nel centro di San Pietro per veder
sparire d'infilata i macigni levigati del colonnato; e marameo facevano
le colonne ad ogni ondeggiare, così come i titoli lasciavano sperare
di trovarlo, di trovarla.
Allora si suppone che sia partito, sia partita - visto l'agosto anticipato -
oppure un omissione di qualcuno, uno sgarbo, a lui a lei a noi, manca spazio,
manca aria, od ancora, un monologo silenzioso, una pausa di riflessione,
come se gli specchi intorno non bastassero a confondere.
Si suppone che si sia stancato, che si sia stancata, di parlare a vanvera
per noi, per me che non capisco. È mancato all'appuntamento, non è venuta...
ci ha ripensato.
Ma che vuoi che sia se per una volta non lo trovo, non la trovo
alla solita colonna? Alla prossima ci sarà, ne sono sicuro, lui mi ama,
lei mi vuole.
Spunterà vestita come il sogno di un'attesa, con parole da rileggere
a più riprese. Rimango ad ondeggiare nell'alchemico bollo che nasconde
dietro la prima tutte le colonne del colonnato.
Interpreto il suo silenzio riducendolo con un "ma che gli - le - ho fatto".
Allora scrivo, che di Pasquale mi manca la colonna, e perdonate la confidenza,
e scrivo a lui, e a te che ho lasciato nel silenzio, nonostante la confidenza
amore mio, che è amore, io lo so e tu lo sai ma dietro ad una colonna
lascia tutto il suo volume.
Pigro come sono ne approfitto, per spedire ad ambedue il medesimo pensiero,
lo stupore è lo stesso, perché mai pensar due volte la stessa cosa,
sviscerare fino in fondo un fatto così banale come un mancato appuntamento?
Aspetto ancora un poco, qui, nel bollo, centrato con le colonne del giornale,
ripassando i titoli e l'orizzonte... si sa mai che appaia.
1 ottobre 2002, commento a
"Da che parte stiamo?" {da "Il foglio", 01-10-2002}
Son sicuro che ti vedo, non me lo chiedere, sei davanti a me, prima dello sfondo,
stagliato preciso, appendice degli occhi, non serve urlare per farmi sentire,
ma se mi capisci, ho paura che non mi comprendi, mi spiego? Dimmelo.
Non incassarti nel collo distendi le dita, ti faccio un esempio:
è come se ci fosse una persona davanti a me, ma non una qualunque stavolta,
proprio tu, come vederti, toccarti e sentirti, ma tutto insieme, ma tu mi capisci,
o parlo più piano? Se vuoi ci mettiamo in discesa, sfrondo le cose che avanzano,
e se restano buchi, mettici quello che vuoi, mi accontento.
Pensavo si facesse quattro passi e discorsi, ma quando mi guardi come una parola
mai letta, mi sento in affanno, non so se son troppo per te, o sei impossibile
da circondare. Mi lasci affamato con un pacco di pasta ma senza il fornello,
sgranocchio l'idea, non pranzo.
Ho la certezza di quello che dico, non mi hai ancora staccato gli occhi di dosso,
e di solito vaghi distratto sulle parole, le cerchi nella carta per terra,
sui volantini dei parabrezza, mi piace quando distrai i pensieri per sorprenderti dopo.
Hai letto qualcosa di orientale, di ascetico-universale? Ritorna per terra amico mio,
torniamo a parlare a zonzo come sempre; di che ti sei innamorato stavolta?
Quante gambe ha? Se fosse proprio così son disposto a cedere il diecipercento del tempo,
passeggeremo per scorciatoie.
...
Ho sonno, come quando mi si chiudono gli occhi ed allora desidero un letto. mi capisci?
È come quando ti senti morire, ma è solo sentire, non è che lo ascolti che muori;
a sentirlo bene saresti giè morto, allora, solo un po': ho sonno per l'appunto, perlappunto.
ripassando i titoli e l'orizzonte... si sa mai che appaia.
8 ottobre 2002, commento a
"Fine e secondo fine" {da "Il foglio", 08-10-2002}
Al caldo della nostra disillusione, cerchiamo sollevando i coperchi,
il pupazzo a molla. Passiamo da un coperchio all'altro, tastandone la resistenza,
prevedendo o meno la presenza all'interno di una sorpresa, e se non c'è,
che almeno sia vuota, come una casa appena acquistata, piena di poi.
Quante cose da fare ci lascia? C'è un divano da mettere, un tavolo
che se trovo la giusta tovaglia... e ancora le tende e l'armadio.
Ecco, il nostro secondo fine, intrappolare il vuoto fuori da un sacco di cose.
Perché fuori, c'è lui, chiunque esso sia, c'è lui che consiglia i colori,
non uno, ma tanti, alternative a se stesse, influenze di qualche altra parte del mondo
che, per nostra fortuna di alternative ne ha tante. Avremo sempre una stradina
appena spiovuta da percorrere, cercandoci le chiavi in tasca, una porta da sbattere
e un divano fumante dove raccogliere il nostro secondo fine.
E se ci pensiamo bene, è fatto a forma di barca, legato al molo dei nostri pensieri,
davanti al mare che giustifica l'isola. Partire, conviene partire, che ci son cose
da vedere, ecco perché voltiamo le spalle alle scacchiere altrui,
in cerca di altre scacchiere. Non siamo pedoni, nemmeno regine, ma re,
che di casella in casella aspirano a diventare alfieri o torri, o se pazzi, cavalli.
Di bianconero alternato, abbiamo la vista rimbambita. Tutti!
Che male comune è mezzo gaudio e l'altra metà, è il secondo fine.
15 ottobre 2002, commento a
"Devozione a cosa?" {da "Il foglio", 15-10-2002}
Ma che dici, non capisco, tu mi parli di castelli e canarini,
esplosioni domenicali, e ti leggo assorto e tutto diventa Bibbia, Corano.
Chi è 'sto Capì, non l'ho visto mai, ti assicuro che ci son pur io per strada,
lo so perché si muovono le tende, e li vedo dietro là,
occupati a togliere la plastichetta dai mazzi di carte nuovi.
Ogni mazzo un castello, ogni mazzo un razzo.
E poi lei chi è? Se ci stavi insieme deve essere simpatica, amorevole
o ci stai per devozione? Ma lei chi? É una donna o un'idea?
C'è differenza poi tra le due cose? Ti passò lei il fiammifero
per la miccia dell'esplosivo? Rideva? Ritraeva la mano?
Si appoggiava alle tue spalle riparandosi il petto e il canarino
- se mai ne ha uno al posto del cobra - ti incitava?
L'ho hai fatto per lei quel rumoroso mazzo di ortensie,
sei diventato il giardiniere dell'isola?
É una fatica saltar le simil-ab-itudini, per andare al succo del discorso.
E se il succo fosse il canarino? Ho paura che nei faldoni non ci sia niente,
che mi sviino dal discorso, come l'impiegato che in tralice
si distrasse dalle parole crociate quando sentì il gran casino dell'esplosione.
Stralunato sto, ma che bella sensazione!
22 ottobre 2002, commento a
"Parte il razzo dal petto" {da "Il foglio", 22-10-2002}
Eccetera eccetera
L'uomo raramente è sveglio perché, quando sa quel che dice e quel che sa,
conosce lo sprofondato orrore della malafede.
Eccetera eccetera.
Bevo il caffè, che qui c'è da muover le mani per ore a non scrivere niente
e le ragioni sono palazzi rumeni.
Ma non ho voglia di pensar di svegliarmi perché volendo, rimane sempre un angolo
tra il soffitto e le pareti dove puntare lo sguardo, ci si ripiega il cielo intero
tra le tre linee che una cazzuola ha carezzato in attesa del frattazzo,
che due occhi hanno squadrato stringendo la lingua dell'attenzione tra i denti.
Oggi pensare è difficile ci vogliono anni e fili a piombo, per raggiungere
uno squadro decente, in cui infilare il proprio sonno chiarificatore,
e un coraggio da leone, che coraggioso non è poi così tanto che è sempre stato
il più forte, e un leone dicevo per balzare oltre l'apparenza delle parole,
ma anche molta esperienza da muratore, che non si chiede se la casa è bella o brutta:
prende il progetto, cazzuola, fodere di pioppo squadrato e si concede il tempo previsto.
Dimenticavo, ma la coda dell'occhio è rimasta impigliata, dimenticavo l'imponderabile
considerazione di sé, quel passo indietro per cogliere il tutto ed offrirlo in pensiero
ad un "ti immagini se"...
Adesso apro l'armadio, magari ci trovo una cintura da palestinese.
29 ottobre 2002, commento a
"Di te è la ritrosia che sopravvive" {da "Il foglio", 29-10-2002}
Così restarono le briciole a ricordare la dolcezza del dolce,
sparse sulla carta traforata, rimasugli di folla il giorno dell'Assunta,
quando a guance gonfie consumammo l'evento, pioggia di mandorle.
Tra i bicchieri, i tappi, passò la mano a raccogliere,
ma prima ad unire per dar consistenza, e ricordi che bello che fu?
Furono giorni felici, ed ora, mi parve di non esser più il mio nome,
ma solo, di quella felicità l'effetto. In quel tempo io ero Schizzo,
per quanto mi dividevo nelle mille parti di me; al tonfo,
una pioggia fitta di una goccia sola e mille macchie.
Incurante come uno schizzo, fastidioso nei giorni di traffico,
ma anche sorpresa come la pioggia col sole.
Ero della mia felicità l'effetto. Poi fui Setola, ruvida di cinghiale,
lucida a nasconder il pericolo del tocco, impennata dall'adrenalina della caccia,
incarnita e pungente o appena spuntata ed allora morbida alla carezza,
ero la setola che mi scaldava e che divideva la diffidenza dal suo effetto.
Raccolsi la manciata di briciole; divenni Legnoso, rigido e sordo
ed ogni giuntura doleva quando qualcuno mi legava con filo di ferro
ad un tralcio di vite: io? Tutore? Di chi? Che vino uscirà mai,
slegato il legaccio e strappato il grappolo che con tanta fatica
tenevo appoggiato alle mie curve nodose. I nodi del legno sono anch'essi ricordi,
ricordi di un ramo levato. Ora sono Spazzato! come la carta traforata,
ancora due o tre briciole si aggrappano ai baffi schivando la lingua.
Ora sono Spazzato come la piazza, il giorno dopo l'Assunta,
quando le bestemmie e le grida e le lacrime e la gioia hanno sgomberato
e restano i facchini e gli spazzini a far pulizia.
Ora sono Spazzato.
5 novembre 2002, commento a
"Come marmo scolpito" {da "Il foglio", 5-11-2002}
Son nato astronauta, ma poi son diventato mortale, ed allora addio luna.
Ma come? Son certo: datemi un razzo e un poco di cosa che brucia,
e vi porto le pietre lunari; esse son l' aspettano me, non posso sbagliare.
Anni in piscina, convinto di non aver peso, di muovermi libero,
in attesa di eventi mondiali e poi? E poi un passero ha beccato un filo di rame
e il razzo non parte; "INDISTRUTTIBILE", ecco il suo nome, altro che Titanic,
altro che sogni di gloria; Lui era certezza, le fiamme di dio dovevano spingerlo
dritto su fino alla luna; uno stadio ed un botto alla volta.
Ma un passero ha beccato un filo di rame.
Voi mi direte "Che ci faceva un filo di rame scoperto in un razzo di dio"?
Non è questo il problema, bensì: che ci faceva un passero vicino al mio razzo di dio?
E se non fosse di dio? Allora il passero avrebbe avuto diritto di stare dov'era;
adesso sta a terra stecchito da un corto circuito ed io sto a terra,
stecchito alla ricerca di un piccolo filo di rame da sostituire.
E non son più un astronauta, adesso che che se ne son tutti andati a dormire,
ma una pioggia di lacrime, una mano a tastoni tra gli scarti, una mano
che cerca un filo di rame, senza sensibile tatto, coperta com'è dal guanto
di un ex astronauta di un razzo di dio.
Il giorno è tremendo, e cade anche la pioggia, a diluire le certezze che avevo,
le lava fino a sbiancarle, ed esse spariscono. Guardo il mio altissimo razzo di dio,
pieno di cose che adesso non vanno, e il naso annusa lo strinato odore del tempo che scade.
Mi tolgo la tuta.
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